Per descrivere un insieme si può enumerare o descrivere gli elementi che vi appartengono, le regole di appartenenza, oppure si può partire da un punto di vista complementare e definirlo in negativo: dire cosa questo insieme non è, attraverso gli elementi che non vi appartengono. Oggetto di questo testo non è una discussione della relazione tra musica e letteratura in generale: il melodramma, il Lied, i testi per musica, le musiche per testi, le canzoni, i romanzi di argomento musicale o che contengono riferimenti alla musica, Doctor Faustus, ad esempio, non saranno trattati, se non marginalmente, tanto per citare qualche esempio: “Sympathy for The Devil” dei Rolling Stones, in cui Mick Jagger incarna Lucifero in giro per San Pietroburgo vestito come un gentiluomo, con un chiaro riferimento al celebre capolavoro di Bulgakov; il canto sospeso, composto nel 1956 da Luigi Nono su testi delle lettere di condannati a morte della Resistenza europea, oppure i Queen, che dietro “Bohemian Rhapsody” nascondono “Lo straniero” di Albert Camus (Freddie Mercury dà voce a un personaggio privo di sentimenti, che pare abbia ucciso un uomo); o ancora De André, in “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, che celebra l’Antologia di Spoon River: le epigrafi in versi diventano lo spunto per la creazione di personaggi come “Un giudice”, “Un chimico”, “Un matto”, “Un malato di cuore”.
Il nostro interesse è più ristretto e riguarda la letteratura quando vuole uscire dal vizio del significato e diventare musica, suono, significante, beffarsi del significato e della ragione, in una parola, quando la letteratura cerca di diventare musica. La lingua è “una meravigliosa macchina produttrice di senso” (Berio) e una strada ben asfaltata oggi può essere una mulattiera domani, un crepaccio dopodomani. O anche la musica quando anela a diventare parola, approssimazione di un discorso, ad esempio nella sequenza III di Berio per voce sola, una voce che diventa puro suono, senza parole (comprensibili). L’obiettivo è vedere la letteratura dal punto di vista della musica, in senso lato, e la musica dal punto di vista della letteratura. Nella Prigioniera, Proust scrive «La musica è l’esempio unico di ciò che si sarebbe potuto dire se non ci fosse stata l’invenzione del linguaggio, la formazione delle parole, l’analisi delle idee». Parafrasando Berio, e trasferendo il suo concetto alla letteratura, questa «diventa, un fatto espressivo, ovviamente, cioè un codice di codici – se si potesse dire così – o, anche, una polifonia di codici che talvolta entrano in conflitto fra loro».
Letteratura e musica sono due forme di espressione diverse ma il cervello che le fruisce è uno, e si aspetta, in astratto, le stesse cose, alternanza di tensione e rilassamento, ritmo, cambiamento fino all’estremo, fino alla grande abbuffata e quindi al rifiuto del rapporto tensivo-distensivo tipico della tonalità. Si pensi al giro di Do. Si parte da Do, ci si sospende sul Sol, in tensione, e poi si ritorna e si muore sul Do, lo si attende, lo si brama come una attesa eiaculazione. E questa è in essenza la tonalità, avere cioè una sorta di legge di gravitazione universale di suoni per cui certi accordi sembrano gravare su altri fino a cadervi dentro, alternare equilibri metastabili fino alla stasi e infine al silenzio. Viceversa l’atonalità in musica, che è l’equivalente musicale degli aspetti letterari che vogliamo puntualizzare qui, è la mancanza di leggi universali dei suoni, la libertà di usare dissonanze che prima erano vietate, la libertà di fare anche del male alle orecchie. Pare che l’azienda dei trasporti di Berlino avesse annunciato di voler usare la musica atonale per “cacciare i balordi dalle stazioni”. Ma non è questa la funzione dell’atonalità, ammesso che ne abbia una. L’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, il flusso di coscienza di Molly, è un esempio di equivalente atonale in letteratura. Cade la punteggiatura, le associazioni gravitazionali tra i concetti e le parole, l’emancipazione della dissonanza, come diceva Schoenberg, il grande compositore tra gli inventori, sistematizzatori dell’atonalità e della dodecafonia. Il pensiero prima di diventare parola, brusio di vuoto quantistico in cui il significato è sullo sfondo, lontano, disperso in mille cocci di fumo.
Una considerazione preliminare che serve a isolare aspetti musicali del testo: la letteratura condivide alcuni elementi fondamentali con la musica come il ritmo, inteso non come ritmo narrativo, ma metronomico, che deriva dalle parole, sillabe, virgole, che variano il tempo dall’adagio all’allegretto, dal grave al presto. Che la letteratura sia caratterizzata dal ritmo inteso in questo senso possiamo dare infiniti esempi. Ne prendo uno da un autore dimenticato, Bruno Barilli, scrittore, musicista e critico musicale italiano nato nel 1880. Il suo modello di critica musicale era originale, non apprezzava le considerazioni tecniche e gli esami linguistici, bensì le “impressioni” d’opera, sorte da un gusto sopraffino. Da “Lo spettatore stralunato”, un libro di recensioni, ma recensioni d’autore e non solo. In questo frammento, l’autore descrive il crollo del campanile di San Marco:
Cinquanta e più anni fa cadde il campanile di San Marco. Cadde, anzi sparì addirittura, calò, su sé stesso, come un paio di brache, dalla cima, o dalla cintola, in giù — crollato sui suoi piedi — discretissimamente, silenziosamente, miracolosamente — e in un batter d’occhi travolto tutto in una precipitosa dissolvenza.
Il ritmo incalzante emerge da una semplice lettura ad alta voce, fa eco al crollo e poi i tre meravigliosi avverbi — di solito vietatissimi, la prima cosa cassata da un editor —, discretissimamente, silenziosamente, miracolosamente che creano un effetto rallenty, perché tutto avviene in un batter d’occhio, ma i tre avverbi rallentano il tempo fino alla quiete, al fermoimmagine, sono la manopola che abbassa la velocità del metronomo. Altro esempio, la salsiccia di Friedrick Durrenmatt, che non riporto, un due quarti incalzante dall’inizio alla fine.