Le umane maree sono emigrate da tempo,
hanno lasciato una coriacea pozza di simili
e segni sparsi di un confuso passaggio.
Verso il cielo punta la strada,
lungo il pendio ripido, selvaggio, universale,
lo sguardo si riempie di sensazioni mistiche.
Edifici con mattoni a vista, non ancora conclusi,
sono narratori insuperabili di quotidiano.
Dietro finestre in alluminio, il riflesso della tv sempre accesa.
I cani sono senza guinzaglio per penuria di padroni;
la casa cantoniera ha i vetri sbeccati,
sulle mura messaggi politici di epoche remote,
dell’ultima volta che è stato rifatto l’asfalto.
In piazza uno sparuto gruppetto gioca a carte:
pensionati, disoccupati, impiegati comunali,
amministratori di una quota di deserto.
Nessun terremoto, nessun cataclisma,
l’uomo ha tempi d’impatto diversi,
sulla scala Richter non lo rilevano.
Dalla rassegnazione affiorano sommessi sospiri.
Tutto è cristallizzato, senza ritorno,
la speranza è un esercizio di follia.
Su una miniera di malinconia a cielo aperto,
tra i ricordi del passato e i vuoti del presente,
la morte annida la sua vulgata.
È un lusso poterla osservare in viso.
Lontana dalle luci, dalle emozioni palpitanti,
la vita è una recita senza pubblico,
l’uomo, un infinitesimo dell’universo conosciuto.
Nel silenzio insostenibile cupa voglia di rivalsa,
di agghindarsi a festa una volta l’anno,
nella proiezione 3d della nostalgia.
Litanie di ciechi turisti animano le notti d’estate,
riempiendo le tasche dei soliti noti.
I giovani in cerca di vita, passano per Arcavacata
prima di fare il salto a Broadway.
Beati loro, mormorano gli anziani.
In questo misto di colori che sferzano il cuore,
uno resta più impresso, prevalente,
il nero dominio dell’uomo sull’uomo.