«Ecco, questo è il grande melting-pot, non ne senti il fragore e il ribollire…»
“Le prime ad apparire furono le spiagge del Jersey,
sparse tra colline, punteggiate di casette simili a giocattoli
giapponesi. Dallʼaltro lato si poteva ammirare la Statua della
Libertà, se si aveva lo stomaco per farlo”.
Emanuel Carnevali
Massimo Vignelli, Melting Pot Flag, 1989
Si fa presto a dire «America».
Con queste parole si apre lʼintroduzione di Mario Maffi al libro Americana, edito da «Il Saggiatore». Come giustamente viene sottolineato, tutti hanno oggi, chi più chi meno, unʼidea precisa di quello che rappresenta lʼAmerica e di ciò che può essere definito «americano».
Certamente il profilo unitario di questo enorme continente, in seguito ad una vera e propria propaganda culturale, che nel corso del tempo ha imposto il modello degli States come sostanza stessa dʼAmerica, è andato perdendosi. Nel caso in cui non venga specificato, infatti, col termine «America» ci si riferisce ai soli U.S.A.
Tutti sembrano conoscere lʼAmerica: chi perché di questa terra ne abbia respirato lʼaria e percorso gli spazi selvaggi e sterminati, afferrandone lo spirito autentico, lʼAmerica del West e delle praterie, della caccia e della pesca solitaria nei fiumi; chi perché ne abbia compreso le vertigini o il profilo butterato attraverso un film di Altman, Stone, Jarmusch o ne abbia sentito la voce espressa dal blues, dal jazz, dal rock; chi perché ne abbia visto lʼimmagine, edulcorata e falsamente serena, nel riflesso di una vetrina di Tiffany o nel cupo peluche di Mickey Mouse che il proprio figlio stringe fra le braccia prima di addormentarsi. Molti ne conoscono la geografia fisica, sociale e culturale: sanno esattamente dove si trovi la Florida o Los Angeles come sanno del giovane presidente assassinato nel Texas, della New Age e lʼEra dellʼAcquario, o chi sia lʼautore di Foglie dʼerba o delle marce per il lavoro e la libertà e della fatidica «I have a dream». Tutto questo ci fa capire quanto il dominio culturale, economico e sociale degli Stati Uniti abbia assunto nel tempo un carattere globale. Molti lʼamano di un amore infantile, che non accetta critiche; altrettanti la odiano di un odio totalizzante, senza remissioni (e la politica corrotta e guerrafondaia degli ultimi cinquantʼanni non fa che complicare le cose).
Si fa presto a dire «America»; ma cosʼè veramente lʼ«America», che cosʼè un «americano»? Queste le domande che Maffi si pone. È proprio questa lʼ«America», quella che si crede di conoscere o che si vorrebbe, amandola o odiandola per scelta o necessità? Fra gli anni venti e gli anni trenta del Novecento, lʼidentità del paese era soggetta a continue trasformazioni, Waldo Frank scrisse: «Andiamo tutti in cerca dellʼAmerica, e nel cercarla la creiamo».
Efficace la riflessione di Maffi sullʼinvadenza della cultura americana come riflesso di una potenza secolare che la rende a volte inafferrabile, indicibile e ostica; «una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio».
Anche se la cultura degli Stati Uniti dʼAmerica possiede caratteristiche sociali proprie come il dialetto, la musica, lʼarte, la cucina e il folklore, essa è comunque il risultato di diverse tradizioni ed etnie. Questa diversità è sicuramente dovuta al fenomeno migratorio verificatosi su larga scala verso l’America. Lʼemigrazione è sempre stata una costante della storia umana; a mutare, nel caso specifico, sono state le dimensioni del fenomeno e le modalità che lo hanno determinato.
Nel XIX secolo, le prime grandi ondate migratorie provenienti dall’Europa sono dirette verso lʼAustralia, il Sud Africa o lʼAmerica del Sud; a partire dalla metà dellʼOttocento, la meta privilegiata del grande esodo divennero gli Stati Uniti. In quegli anni, dall’Europa verso gli Stati Uniti, si muovono folle enormi di individui, privi di mezzi ma portatori di una propria identità culturale, di proprie tradizioni, usi e costumi nazionali diversificati; ai quali, nello stesso periodo, si uniscono milioni di africani, per i quali, però, bisogna parlare di vera e propria deportazione.
Tra il 1890 e la prima guerra mondiale l’America accoglie 15 milioni di emigranti. Ad occupare i posti più bassi nella gerarchia sociale della complessa e multietnica realtà statunitense, furono soprattutto gli italiani delle regioni meridionali del nuovo Stato, oltre a polacchi, serbi, greci e agli ebrei dellʼimpero zarista. I nuovi arrivati suscitano reazioni discordanti e non solo perché sono in numero maggiore che in passato: la loro provenienza da regioni europee più arretrate, la loro origine prevalentemente contadina, il loro basso livello dʼistruzione creano per la prima volta, nei nativi, unʼopposizione che a tratti si manifesta apertamente.
Fu così che lʼarrivo continuo di nuovi emigranti diede una fisionomia del tutto particolare sia alle principali città americane che allʼintera società degli Stati Uniti e alla strutturazione di una sua cultura. In genere le famiglie più povere vivevano ammassate, in modo promiscuo, in alloggi fatiscenti, concessi in affitto dagli speculatori a prezzi astronomici. Non conoscendo né lʼinglese né la nuova realtà in cui erano stati catapultati, i membri dei diversi gruppi nazionali preferivano vivere il più possibile uniti, per cui si vennero a creare delle vere e proprie isole urbane notevolmente omogenee dal punto di vista etnico. Non appena un gruppo nazionale (considerato nella sua globalità) riusciva a salire un gradino nella scala sociale, riuscendo ad accedere a lavori più remunerativi, lasciava il quartiere più povero e malfamato, per trasferirsi in blocco in unʼaltra area maggiormente integrata.
Fu inevitabile che in tale situazione, caratterizzata da un alto livello competitivo, fra i vari gruppi e le varie categorie, si verificassero anche scontri etnici durissimi, come quelli fra irlandesi, che dopo molto penare, grazie soprattutto alla padronanza della lingua, riuscirono a rivestire ruoli di potere, ed italiani. Forte era il disprezzo nutrito dagli americani WASP (acronimo di white, anglo-saxon, protestant) verso gli immigrati, soprattutto nelle regioni più meridionali, fortemente razziste. Tra il 1880 e il 1930, infatti, sono documentati almeno 3943 linciaggi compiuti da una folla inferocita contro un individuo ritenuto di razza inferiore. Nella grande maggioranza dei casi si trattò di uccisioni di neri, accusati di svariati delitti, come ad esempio la violenza carnale ai danni delle donne bianche. Gli altri casi riguardavano uomini bianchi e di essi, su cento casi, novanta erano italiani. Sappiamo che gli italiani erano disprezzati al punto che veniva messa in discussione la loro stessa appartenenza alla razza bianca. Nel 1898 lʼassemblea legislativa dello Stato aveva tentato di escluderli dai diritti civili, al pari dei neri. Questa operazione, fortunatamente, non andò mai in porto.
Dʼaltro canto, esisteva verso gli immigrati italiani un profondo pregiudizio testimoniato per altro dallo stesso nomignolo dagos, con cui venivano designati, evocante il pugnale, cioè la violenza e lʼincapacità di controllare lʼesplosione della rabbia. Le volte in cui, in aggiunta a ciò, si diede una patina politica alla violenza congenita dei dagos, lʼaccento cadde sullʼanarchismo; pensiamo a Sacco e Vanzetti, condannati nel 1927 alla pena capitale per reati che non avevano commesso, proprio perché, in quanto italiani, considerati portatori cronici di violenza e brutalità.
Nel 1894 si arrivò addirittura alla Lega per la restrizione dellʼimmigrazione, unʼorganizzazione finalizzata a proteggere gli USA dalla «feccia» che da tutta lʼEuropa si stava riversando su Ellis Island. Questa organizzazione nacque, tra lʼaltro, dalla volontà di alcuni tra i più brillanti professori statunitensi di scienze sociali, secondo i quali la razza era il principio di base che provocava lʼascesa o il declino dei popoli e delle civiltà.
Ai loro occhi, lʼingresso negli USA di neri, ebrei ed italiani, avrebbe rovinato la perfezione del ceppo anglosassone e nordico, provocando il rapido declino della giovane nazione americana. Ci troviamo quindi in un momento storico nel quale si discute molto se questi nuovi immigrati siano capaci o meno di americanizzarsi e soprattutto se lo vogliano. Era opinione dominante che per integrarsi essi avrebbero dovuto dimostrare la loro totale adesione agli usi e ai costumi americani, accogliendo in toto gli ideali e la nuova cultura.
Israel Zangwill, un drammaturgo inglese a cavallo fra i due secoli, scrive nel 1908 unʼopera il cui titolo diventa presto simbolo del processo di americanizzazione, The Melting-Pot. Nella scena finale, David, immigrato ebreo, si rivolge a Vera, immigrata cristiana, mostrandole la Statua della libertà e i tetti di Manhattan: «Ecco, questo è il grande melting-pot, non ne senti il fragore e il ribollire… che gloria è quella di Roma e Gerusalemme, che tutte le razze e nazioni vengono ad adorare guardando al passato, paragonata alla gloria dellʼAmerica dove tutte le razze e nazioni vengono a lavorare guardando al futuro!». Quello espresso dallʼebreo David non è altro che un auspicio: è la descrizione di una realtà, in parte esistente, nella quale tutti gli emigrati, in nome di unʼassimilazione politica e culturale, che guarda esclusivamente al futuro del paese, si sarebbero fusi in unʼunica identità pur mantenendo un assetto eterogeneo. È chiaro però che il problema dellʼidentità americana si rivela ben più complesso di quanto immaginano i due personaggi della commedia.
Nei primi del Novecento inizia comunque a circolare una crescente consapevolezza della discriminazione e della brutalità con cui la società americana accoglieva e trattava gli immigrati; è anche vero che a volte la discriminazione rafforza o addirittura crea lʼidentità; pertanto, la questione inizia ad essere motivo di dibattito sociale, trovando spazio nelle riviste e nei giornali dellʼepoca. Nel 1917 esce il libro Lʼimmigrato e la comunità di Grace Abbott, che si era sempre battuta per i diritti degli immigrati costruendo unʼefficace rete di strutture di primo soccorso. In questo libro, oltre a numerose proposte concrete per migliorare i centri di accoglienza nei quali molti immigrati venivano truffati o derubati, venivano denunciati soprattutto gli abusi di cui erano vittime le migranti nubili e sole approdate ad Ellis Island fra il 1909 e il 1914. Al di là di questi dettagli concreti, il libro è particolarmente interessante per la risposta della Abbott alla cruciale domanda che avevamo posto allʼinizio: che cosʼè un «americano»?:
«Siamo una pluralità di nazionalità, disseminate su un continente, con tutte le differenze e i motivi dʼinteresse determinati dal clima … Se gli inglesi, gli irlandesi, i polacchi, i tedeschi, gli scandinavi, i russi, i magiari, i lituani e tutte le altre etnie della terra saranno capaci di coesistere, ciascuna con il proprio peculiare contributo alla nostra vita comune, se saremo in grado di rispettare le differenze determinate da ambienti politici e sociali diversi, e nel contempo gli interessi comuni che uniscono lʼintero paese, potremo cogliere lʼoccasione rappresentata dallʼAmerica».
Consigli narrativi per approfondire lʼargomento:
Emanuel Carnevali, Il primo dio
Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte
John Fante, Dago red
Robert Viscusi, Ellis Island
Pietro Di Donato, Cristo fra i muratori