«Siediti sul bidet» dissi a L. Lei aprì le gambe e ci si sedette. La schiena curva su cui potevo contare le vertebre.La finestra aperta, i nei gettati sulla pelle e intirizziti dalla temperatura invernale – L. ne aveva molti più di S.
Le dissi «apri l’acqua fredda» e lo scroscio si diluì nel ronzio del neon accesso sullo specchio. Le piastrelle alle pareti bianche e leggermente umide, asciugamani sul box doccia che qualcuno aveva dimenticato di stendere. Il dentifricio vuoto nel lavandino. L. si ispezionò l’interno coscia. Dopo poggiò le mani sul bordo del bidet e gli anelli tamburellarono sulla ceramica. Alzò il viso trapezoidale ed era tutto un pallore di pupille sgranate. Io chiusi a chiave la porta illudendomi che questo semplice gesto sarebbe bastato a farci rimanere soli.
Dal giorno in cui T. era entrato in coma, casa loro s’era fatta cosa viva:rimasta sola, L. aveva affittato le rimanenti stanze a perfetti sconosciuti e da allora un gran via vai di gente che entrava e usciva si era installato nell’appartamento. La maggior parte di loro se ne fregava che le cose andassero per il verso giusto.Restavano dentro per giorni e poteva capitare che più d’uno avesse bisogno di utilizzare la cucina, la lavatrice o l’asciugacapelli nello stesso momento. A tarda notte, lo sfregare dei corpi per i corridoi verificava la loro onnipresenza.Ogni volta che ritornava in camera sua, L. aveva l’impressione che, fino a un attimo prima, ci fosse stato qualcun’altro lì dentro. La cosa la lasciava indifferente.
«Sputa» dissi. L.si lasciò colare un grosso grumo di saliva sul pube, mentre la rimanenza rifluì elasticamente a sfavore di gravità verso le labbra. Qualcuno litigava per telefono fuori del bagno. «Mischiala col sapone» e lei spremette il beccuccio due volte, passò appena le dita sotto l’acqua del bidet e lo fece schiumare sul pelo assieme alla saliva. «Basta così». Senza fretta mi avvicinai arrotolandomi le maniche della camicia. Mi inarcai contro quella schiena che tornò a farsi convessa: le sue mani mi arpionarono i bicipiti e la testa si adagiò nell’incavo della mia spalla. Chi prima litigava adesso bussava con insistenza per entrare in bagno.Ripresi a lavarle la figa. Provavo un sottile disagio. L. sussultò a contatto con l’acqua fredda.
Mi nominò. Disse: «Z.» e il mio nome si confuse con i colpi che stavano dando alla porta. Con l’altra mano le serrai le labbra perché gli altri non la sentissero gemere. Le mie dita le scivolarono in bocca con una facilità estrema. Iniziò a succhiarmi l’anulare: andò avanti e indietro un paio di volte prima di sfilarmi dal dito la fede di S.e infilarci dentro la lingua.
«Io non le metto, quelle» aveva detto L. a letto con T.
«Dieci minuti… per compiacermi» l’implorò T.
«È proprio questo il punto». Allora T. aveva fatto sparire le autoreggenti tra le lenzuola e L. si era rintanata all’estremità opposta del letto.
«Che cosa diceva T. quando ti toccava?» chiesi a L. mentre godeva insaponata, insalivata, bagnata d’acqua sempre più gelida. Toccarla era una piccola oasi di tradimento, mentre T. era in coma. «Tu non sei lui» rispose con la fede in bocca L.
Non articolava a dovere. «Ma il suo complemento».
Pensai che l’immoralità fosse una conquista.
Vedevo le narici, le orecchie, la bocca aperta sottosopra. La fede di S. le affiorò stretta tra i denti, nella morsa. Con un cenno del mento mi invitò a prenderla, ma io rimasi immobile.
La lasciò cadere nello scarico del bidet.
«Ho anch’io delle esigenze» disse T. che aveva ingoiato a lungo l’intermittente inappetenza sessuale di L.
Non si mosse, distante e fredda. «Non indosserò nessun simbolo di mercificazione, né i tacchi né le calze» rispose. «Sono nuda e non ti basta». Dietro i vetri, le persiane sbattevano per il vento. Giù in strada una gatta molestava l’inclinazione al silenzio che hanno le tre del mattino. T. si sentì in diritto, per una volta, di pensare a sé: così scattò verso l’altro capo del letto, si appese al suo seno e lo strizzò violentemente. Con forza tentò di ficcarle le autoreggenti mentre L. scalciava. Finirono sul pavimento. L. urlava parole inafferrabili. Le autoreggenti sarebbero rimaste ai piedi del letto per molto tempo.
Di ritorno dal bagno L. e Z. non incrociarono nessuno. Nel lavello della cucina pile di pentole sporche; carote all’aceto e ribes mozzicati e tozzi di pane e molliche e spaghetti al sugo nei piatti sul grande tavolo senza tovaglia. Entrando, L .puntò dritta verso il frigo, nel suo accappatoio rosa, mentre Z. si mise a contemplare i resti della cena lisciandosi la barba.
La mattina seguente quell’ennesimo litigio, T. e L. fecero colazione in un posto che aveva aperto da poco. Il personale era giovane e cordiale. Il responsabile di T. lo chiamò per affibbiargli un turno straordinario. Lui non rifiutò. Bevvero una spremuta d’arancia a testa e nessuno accennò ai fatti della sera precedente. T. prese la mano di lei e la baciò. Poche ore dopo sarebbe stato coinvolto in un incidente stradale.
«Qualcuno ha mangiato il mio yogurt» disse L. rovistando nel frigo. Per lei era uso comune: in casa c’era chi mangiava roba non sua o usava lo spazzolino di qualcun altro, o si appropriava di una borsa anziché di un paio di scarpe lasciate sui balconi. Io non avrei retto.
Mentre tornavamo in camera pensavo a T. – ci pensavo continuamente. Con i suoi dischi, tutti là dentro. Con la sua macchina fotografica e gli obiettivi chiusi in una vetrinetta.
Il ponte era gremito di automobili e passanti. Il fiume spaccava in due la città, immerso in una bassa foschia che foderava gli argini in lontananza. «Sposami» aveva detto S. – e Z. prima non capì, poi le chiesi del divano, della Tv e dei soldi, e di quale fine facessero le illusioni…? – «non saremo mai più giovani di adesso…». Z. non aveva ancora trent’anni e S. viveva già da molto tempo un sentimento senza età.
Io restai sulla porta. L. lasciò cadere dolcemente l’accappatoio e andò verso i piedi del letto, dove raccattò le autoreggenti. Nell’infilarle le sue natiche rotonde si schiusero appena. Andò nell’angolo opposto della stanza per rimediare un tacco dodici da una scatola blu e disse mostrandomele «ti va?».
Annuii, ma era come se continuassi a scoparmi mia sorella minore. La camera tendeva a distrarmi: piena di cianfrusaglie inutili com’era; tutte rimandavano a T. anziché a L. Qualche libro che gli avevo regalato sugli scaffali. Una risma di appunti tenuta insieme da un nastro azzurro. Persino i camion in manovra che rifornivano il market a pianterreno mi facevano pensare al modo che aveva T. di dormire. Leggero, insoddisfacente.
«Le coppie si sposano e diventano tristi» risposi e S. si adombrò. Tolse dei pelucchi dal suo cappotto di panno rosso. Una donna che andava di fretta mi urtò senza scusarsi.
«Le coppie… gli altri… » disse, «che c’entrano?».
«È così. Statisticamente».
Quando ebbe finito, L… le cosce ben tornite, il ventre leggermente rigonfio, i nervi del collo tesi, la curva conflittuale dei seni. Si voltò verso la libreria e sul primo ripiano focalizzò una confezione di plastica lasciata a metà. Fu quasi certa di non averlo mangiato lei, quello yogurt.
Ci sedemmo in un bar, T. ed io. Erano i primi di dicembre, avevo appena staccato dall’autogrill, si gelava. T. si accese una sigaretta. Negli ultimi tempi s’era fatto taciturno. La ditta di trasporti per cui lavorava lo stava spremendo. Puntò lo sguardo sulle strade spruzzate di luminarie natalizie, attraverso la vetrina. Pronunciò due frasi soltanto, scollegate tra loro, o forse no: «che tristezza» e «L. mi tradisce». Poi non disse nient’altro fino all’arrivo della cameriera.
La pioggia si fece più intensa. I passanti sguainarono gli ombrelli. S., appoggiata alla balaustra del ponte, esaminò la foschia. Prese parola vagamente isterica e disse «la statistica non c’entra. Per te non c’è differenza tra me e un’altra… Non venirmi a dire…» un battello rumoroso, lento sul fiume, si portò via il senso delle cose e la voce di S.
«Chiudi la porta» intimai a L. sedendomi sul letto.
«È già chiusa».
«A chiave, intendo». Lei si spazientì.
Da quello sconforto S. non si riprese più. Si infagottò nel cappotto di panno e cominciò ad allontanarsi. Mi dimostrava un egoismo inedito. L’incomunicabilità, noi non l’avevamo neanche mai presa in considerazione. La chiamai, le chiesi di fermarsi un attimo. Mi disse qualcosa sottovoce e continuò a scivolare via. Nemmeno le profonde affinità dispensano da incomprensioni.
«Chiudi la porta a chiave».
Riempì una vaschetta con una bottiglia d’acqua. Prese un barattolo di schiuma da barba e una lametta da un beauty-case marrone. Poggiò tutto sul comodino accanto all’abat-jour accesa. Un anello scintillava sul piano – probabilmente la fede di T. «Devi accettare che la casa adesso è di tutti».
La cameriera aveva preso le ordinazioni controvoglia e mentre se ne tornava al banco, le avevo guardato il culo – mi parve che l’intero bar avesse fatto uguale. T. afferrando un giornale mi aveva chiesto «e che mi dici di S.?».
Poi L. tirò fuori dall’armadio un grande asciugamano che spiegò sul letto. Ci si sedette sopra e allargò le gambe, puntando i tacchi contro la coperta. Dissi «non hai chiuso».
Sul giornale c’era una réclame di una marca di tabasco che recitava:CON NOI L’INFERNO ARRIVA SECONDO. «S. ed io ci sposiamo il mese prossimo» risposi. T. corrugò la fronte.
«Compriamoli usati, gli anelli. Ti va?» aveva esordito una mattina S.mentre si truccava, «se avessero già passato una vita insieme…». La stravaganza di S. faceva il paio con le mani e di perfezionismo spietate che aveva,tanto per i drammi quanto per la felicità. Z. non capiva se era d’accordo oppure no con la proposta di S. Sapeva soltanto che, nonostante i dubbi sul loro matrimonio, quando lei s’era messa a pisciare nella luce del sole che inondava il bagno, aveva sorriso.
«Ti ho detto di non preoccuparti della porta» ripeté L. bloccandomi a letto. Divaricò un po’ di più le gambe e cominciò a bagnarsi il pelo con l’acqua della bacinella.«Radimi» mi implorò dopo.
Così S. portò Z. in un negozio di antiquariato. Il tizio garantì che le fedi erano appartenute a una coppia di vecchi coniugi che aveva abitato per quasi sessant’anni in fondo alla strada. Erano morti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro.
«Come li ha avuti?» chiese S.
«Il loro primogenito aveva problemi di soldi… ma lasci perdere questa storia. Vedrà che portano fortuna, parola!».
Ero rimasto seduto sul letto spalle alla porta. La cucina si era rianimata, stoviglie contro bicchieri, e posate e scodelle incastrati nello scolapiatti. Chiunque avrebbe potuto approfittare della vulnerabilità della porta, irrompere, piazzarsi alla scrivania, frugare tra i cassetti, nella biancheria, vedermi chino sul pelo di L. adesso sgonfio, bagnato, osservare la fede di T. sul comodino, sorprenderci come ladri, assassini. Notai che la schiuma da barba era quasi terminata. Le spalmai sul pube gli ultimi conati bianchi e spumosi. Quindi iniziai a raderla. La lametta era usata. Si tagliuzzò in diversi punti. L. tentava di farmi accedere a una dimensione più intima. Con lei. Con T.
«T. sapeva?» le chiesi risciacquando la lametta.
Rispose di sì soltanto quando la sua fica fu bene in mostra e asciutta, e io scrutandole le labbra ebbi l’impressione di averle estorto un segreto desolante.
Continuò a leggere il giornale, Z. la cameriera. Poi tutt’a un tratto T. si alzò per ordinare dello champagne. Quando la cameriera ce lo servì in due coppe di cristallo, T. le disse «il mio amico si sposa il mese prossimo, devi brindare con noi».
«Sono in servizio» rispose con superbia.
«A che ora stacchi?».
«Tre quarti d’ora. Minuto più minuto meno».
Allora T. prese un biglietto da cento dal portafoglio, lo strappò e ne mise una metà sul tavolo. «L’altra metà se verrai per un giro in macchina a fine turno».
Poggiò per terra la bacinella. L’acqua sussultò. «Anche S. sospetta qualcosa» confessai. La baciai. Poi L. prese la fede di T. dal comodino e se la infilò nella fica rasata di fresco. «Va a prenderla» mi suggerì all’orecchio.
La cameriera si strinse il vassoio al petto, diede una rapida occhiata intorno, poi prese la banconota stracciata. Quando andò a servire un altro tavolo, si mordeva il labbro inferiore.
Non mi ero accorto che qualcuno era entrato nella camera. Ci osservava in silenzio. Tentai di voltarmi ma L. mi trattenne la testa.
«Non c’è niente, là dietro. Concentrati su di me. Tira fuori la fede» mi disse. Andai dentro con due dita. Cavai l’anello che si era fatto viscoso. L. me lo infilò sull’anulare. Una voce maschile alle mie spalle esclamò «scusa L., devo prendere lo yogurt». Io pensai che l’inferno è non riuscire mai a rimanere soli.
«Che ci fai qui a quest’ora?» disse L. poche settimane prima vedendomi sulla porta d’ingresso. Indossava un maglione di lana grossa e un pantalone di felpa. «S. mi ha chiesto di passare a prendere… ha detto che tu sai cosa. T. non c’è?».
«Turno straordinario. Entra».
Ci sistemammo in cucina, pulita e in ordine. Due o tre tazzine da caffè nel lavello, nient’altro. Non eravamo rimasti soli molte altre volte e quella era forse la prima in cui si avvertiva una reale tensione sessuale. L. mi consegnò una busta voluminosa con dentro riviste di vario genere per S. Io mi sedetti al tavolo, vicino al cesto della frutta. Le chiesi qualcosa di caldo da bere.
La cameriera passò al sedile posteriore e cominciò a spogliarsi. T. le scattò una fotografia con una vecchia macchina fotografica che teneva nel cruscotto. Per le emergenze. Avrebbe stampato la foto, il culo in primo piano, le spalle dissolte nel chiaro scuro dell’abitacolo, e dietro ci avrebbe scritto: al mio amico Z. Per non dimenticare. Gliel’avrebbe consegnata il giorno del suo matrimonio con S.
«Adesso scendi», gli disse T., «io l’ho pagata ci vado per primo. È il minimo».
Versandogli del tè caldo L. disse «S. sarà entusiasta. Il grande giorno si avvicina».Z. fece di sì con la testa. Non dimostrò né gioia, né timore. Si limitò a osservare l’altra come se volesse penetrarla da parte a parte.
Disse «forse è meglio se vai».
«È presto… ».
Gli mise sulle gambe la busta con le riviste. «No, dico davvero. Voglio che te ne vada».
Il parcheggio era vuoto, sterminato di luci rade e cieche. Mentre T. si scopava la cameriera l’auto cigolava. Io pensavo a S. Qualcosa di insensato si nascondeva sotto questa spasmodica ricerca dell’altro. Feci due passi. Avevo la bocca secca e amara.
Alla fine, L. fu costretta ad ammettere che non era quello ciò che voleva. Mentre glielo prendeva in bocca capì che non solo non aveva nessuna voglia di allontanarlo, ma il fatto che Z. stesse per sposare S. la metteva in una condizione di subalternità umiliante. Quando L. lasciò l’appartamento, lei tornò nella stanza da letto che fino a quel momento aveva condiviso esclusivamente con T. Vide le autoreggenti per terra senza vita. Squillò il telefono, rispose. Dall’ascensore Z. non la sentì urlare.
Una volta sceso dalla macchina, T. si tirò su la patta dei pantaloni e si allacciò la cintura. Comunicò a Z. che era arrivato il suo turno.
Lui, rientrando in auto, intimò alla cameriera di rivestirsi.
«Come?» protestò T.
«A casa. Svelto».
Prese la bacinella e il rasoio. Dopo essere tornata dal bagno raccolse l’asciugamano dal letto e si sfilò le autoreggenti. Le ripose nel comodino, «i medici… ».
«È l’alba. Devo andare» le dissi.
«Dicono che T. non uscirà dal coma». Si slacciò il reggiseno e indossò una maglietta nera a maniche corte, sfilò da uno schedario alcuni documenti e li fissò in silenzio.
Infilandomi il cappotto mi avvicinai a lei.
«È la procedura per spegnere il respiratore» disse.
Poi L. si rimise a letto.
«È ancora presto per staccare». Chiusi la porta della camera e mi ritrovai in corridoio. La casa mi sembrò disabitata. Tornando in macchina, lanciai l’anello di T. sulla tangenziale e pensai a S.
Non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Era rimasta sveglia ad aspettarmi in cucina. I primi chiarori del mattino trapelavano dai vetri. Nella penombra S. sfogliava le riviste che L. le aveva prestato. Mi fermai nella cornice della porta. Notai la foto della cameriera sul tavolo.
«Dove sei stato?».
Andai in bagno a sciacquarmi la faccia. Mi colpì con i suoi piccoli, serrati pugni sul petto non appena venni fuori. S. tornò in cucina e strappò la foto della cameriera con la mascella serrata. L’amicizia tra T. e me le dava la nausea.
Stremata si stese sul divano e io accesi la Tv. Fu allora che se ne accorse. Disse: «non hai la fede».
«L’ho persa. Devo averla lasciata sul lavandino… nel bagno dell’autogrill. Sono tornato indietro. Non c’era. Ho passato il resto della notte in macchina perché non sapevo come dirtelo».
Il giorno seguente fummo svegliati dallo squillo del telefono. Erano le tre del pomeriggio. S. si alzò dal divano tramortita dal sonno e dalla delusione. Andò a rispondere. Riattaccò.
Disse «T. si è svegliato».