La Stanza

La Stanza

 racconto di Francesco Principe

Non c’è letto. Fa caldo. Blanco arrotola la sua camicia da notte, ovvero la parte superiore dell’unico indumento che possiede, per usarla come cuscino. Blanco da principio pensò che non sarebbe stato possibile prender sonno così, per terra, come un cane.
Avrebbe rivisto la luce del sole? Si sentiva infelice da tempo. Ma ora? Lo era di più o di meno? Certo avrebbe voluto quantomeno salutare sua madre ma forse per sua madre sarebbe stato meglio non sapere più niente di lui. Mica tutte le madri amano i figli. Blanco, per sua madre, era sempre stato quella purulenta escrescenza carnosa che le si era sviluppata dentro cibandosi della linfa vitale e dell’acerba bellezza che immaginava spettarle di diritto per l’eternità. Amici a Blanco ne erano rimasti pochi. Forse nessuno. Specie quando non aveva soldi per il vino. Donne? Blanco pagava pure quelle, quando poteva e quando non sapeva farne a meno. Era in quel periodo della vita in cui ciò che hai davanti sembra meno interessante di quanto ti sei lasciato alle spalle. Respirava solo per mettere un respiro dietro l’altro e lo sapeva. Ciò lo atterriva. Forse la Stanza gli avrebbe risparmiato un’orrenda, triste, solitaria vecchiaia. Uscire e riappropriarsi di quello straziante vuoto?
La luce si spense con un tonfo elettrico.
Cosa cambia? Di più o di meno?
Né più né meno. Infelice uguale.
Completamente al buio. Nel silenzio più totale.
Si sentì calmo. Lontano un milione di miglia.
Riuscì a prender sonno senza alcuna fatica.

Il tribunale del Dipartimento di Cortés convocò Blanco durante la notte.
A dispetto del linguaggio ufficiale, in cui è adoperato questo verbo, nei fatti non fu una procedura molto garbata. Semplicemente, mentre dormiva, la Guardia Nacional sfondò la porta, gli infilò un sacco in testa e lo mise ammanettato in un furgone. I racconti di quanto segue a una solicitud variano molto. Anche sul trasporto se ne dicono tante. Il furgone si muove per un tempo che va dalla mezz’ora alle due ore. Non puoi essere troppo preciso con un cappuccio calato davanti agli occhi. Qualcuno sostiene che per confonderti girino a vuoto.
C’è chi sostiene sia in città. Altri hanno sentito il richiamo del Tinamo, quindi secondo loro sei fra i boschi. Comunque quando il furgone si ferma vieni spintonato fuori. Ti fanno camminare. Diverse porte si aprono e si chiudono. Alle volte sali o scendi le scale, altre volte no.
Al netto delle differenze la cosa finisce sempre nello stesso modo.
A un certo punto tolgono il cappuccio. Sei nella Stanza.

Nella Stanza c’è un lavandino, un water e la specchiera. La chiamano “specchiera” ma della specchiera ricorda solo, vagamente, la forma: è una sedia assicurata a terra. Di fronte alla sedia uno spesso vetro con due pulsanti sotto. Uno rosso e uno nero. Accanto ai tasti una targa in metallo sulla quale sono incise alcune frasi:

Potete sentire ciò che accade nell’altra stanza. Il suono di campana indica la pressione di un tasto. Due pressioni di tasto sono contemporanee se separate da meno di un minuto. Se premete contemporaneamente i tasti rossi o un solo tasto nero non sarà giustiziato nessuno. Se premete contemporaneamente i tasti neri sarete giustiziati entrambi. Se premete contemporaneamente tasti di diverso colore sarà giustiziato chi ha premuto il nero. Se viene premuto solo un tasto rosso sarà giustiziato chi non lo ha premuto. Dal quindicesimo giorno in poi non riceverete più cibo.

La policía non riusciva a fronteggiare settanta omicidi in una settimana, la Corte Penal trecento nuovi processi ogni mese. L’impunità era quasi certa per qualsiasi crimine così la gente prese a perseguire l’unica forma di giustizia ottenibile, ovviamente sparandosi addosso.
Da principio nei sobborghi, poi anche nei quartieri più ricchi.
Fu allora che Canela emanò il decreto 22 istituendo le solicitud.
Se viene firmata una solicitud ora ti ritrovi nella Stanza.
Nessun processo. Nessun avviso. Nessuna perdita di tempo.
Ovviamente ci furono proteste, più che altro di associazioni estere dal nome inglese e degli studenti. Proprio per questo il luogo in cui tutto accade è segreto. Si evitano disordini.
Comunque la criminalità è in calo, i tribunali sono semivuoti e oltre confine qualcuno comincia, pare, a sperimentare soluzioni simili.

Il decreto 22 recita che in ossequio alla Costitución Nazional ogni sospetto deve essere giudicato da suoi pari e, pertanto, da un altro sospetto. La precedente interpretazione sul corretto modo di istruire un processo era evidentemente distorta. “Palesata la necessità di superare il sistema precedente, inefficace e iniquo, ora l’iter sarà diverso: due soggetti a giudizio saranno collocati in stanze contigue, ognuno con i medesimi poteri. Questi si giudicheranno l’un l’altro vicendevolmente”. Per arroganza o forse nell’intenzione di sfruttare il decreto come deterrente quest’ultimo venne emanato pubblicamente. Anche i giornali stranieri ne scrissero diffusamente. Ogni angolo del globo si ritrovò a discutere la questione. L’ONU, su proposta francese, mise ai voti una risoluzione d’urgenza per opporsi a ciò che veniva additato come il peggior crimine contro l’umanità dalla seconda guerra mondiale: un intero popolo in cui chiunque può diventare, dall’oggi al domani, condannato a morte o giudice-carnefice. Il Segretario aprì la votazione definendo il decreto 22 un’intollerabile esercizio di perversione dittatoriale e un sadico calcolo terroristico per destabilizzare l’area dell’America Latina.
Tutti d’accordo. Almeno sembravano tutti d’accordo sino a quando la risoluzione non fu affossata da Cina e Russia. Nel Palazzo di Vetro si tornò alla abituale diplomazia del niente. In patria? Anche in patria il decreto 22 suscitò un certo subbuglio. Ignatio Siva scrisse sul Prensa che questo “metodo” puzzava di epurazione, che era frutto di palese follia. Citandolo testualmente “puoi finire in una stanza senza motivo e avere dall’altro lato un perfetto psicopatico che spinge dei bottoni in grado di ucciderti”. Poi diverse manifestazioni di piazza. Qualcuno propose Siva per le successive elezioni. Il Presidente rispose a reti unificate scaraventando davanti alle telecamere due madri di ragazzi morti per pallottole vaganti durante un duello fra bande. Le donne dissero che nel giro di pochi giorni avevano ottenuto giustizia. Pianse insieme a loro e per la Nazione. Secondo il Presidente quello era un momento difficile che rendeva necessarie misure straordinarie. Simili misure, disse, dovevano per forza durare poco. Il tempo di ricostruire un sistema marcio e riportare il vessillo dell’ordine lì dove ora regnava solo la barbarie. Il suo gradimento salì di due punti. Una settimana dopo le piazze si svuotarono. Una prostituta era stata trovata morta per overdose con un numero di telefono in tasca. Era il numero di Siva. In cinque avevano visto Siva per strada che le passava qualcosa. Forse droga. Lo portarono nella Stanza e non ne uscì.

Blanco si svegliò parecchie ore dopo, comunque dopo un tempo che a lui sembrò essere stato di parecchie ore. Nella Stanza non c’è un orologio o una finestra, manca qualsiasi appiglio utilizzabile per comprendere il trascorrere del tempo. L’unico cambiamento che sancisce il passaggio fra un giorno e l’altro è rappresentato dalla ronzante luce blu dei neon o dalla sua assenza.
Blanco si svegliò perché sentì trambusto nell’altra stanza.
Avevano dato di nuovo elettricità. Appena si mosse un dolore netto e inaspettato, scacciando via ogni brandello di residua incoscienza, gli ricordò di aver dormito sul pavimento. Si mise seduto, in silenzio, ad ascoltare.
Una voce femminile chiese di suo figlio. Sentì il rumore di una porta che veniva chiusa. La donna cominciò a piangere. Blanco avvertiva i morsi della fame. Ogni tanto allungando il muso succhiava a lunghe sorsate l’acqua del rubinetto.
Lei piangeva. Non smetteva.
Poi la porta si aprì, entrarono due guardie. Il più alto lo ammanettò al lavandino. Non si parlavano. Non si guardavano. Sembravano automi. Si avvicinarono a Blanco con calma. Il più basso gli tirò indietro la testa strattonandogli i capelli. Quindi calci e pugni nei fianchi. Schema preciso. Collaudato. Efficace. Qualche secondo per fargli prendere fiato fra un colpo e l’altro. A ogni colpo la saliva gli schizzava dalla bocca con un cupo grugnito. Sentì rumori anche nell’altra stanza. La donna urlava. Blanco svenne. Quando aprì gli occhi la porta era chiusa. Lui a terra. Tentò di cambiare posizione per allontanarsi dalla pozza di urina che gli stava sotto. Fece uno sforzo enorme perché qualsiasi movimento costava fitte atroci che spezzavano il respiro e lo costringevano a socchiudere gli occhi. Strisciò sino al lavandino per bagnarsi il viso. Lo scalò sino al bordo. L’acqua era fresca. Precipitava nello scarico rugginosa, rossastra. Blanco pensò che una parte di se stava lasciando quel posto. Continuò a bagnarsi il viso sino a quando non la vide di nuovo limpida. Il labbro inferiore faceva male, gonfio al tatto. Un dente ballava. Non ricordava di essere stato colpito sul volto. Evidentemente avevano continuato a lavorarselo anche dopo lo svenimento. Afferrò il bordo del lavandino per sedersi lentamente. Tentò di spostare il busto come se fosse un corpo rigido. Non aveva mai sentito tanto dolore in vita sua. Un rumore gli gelò il sangue. Rimase immobile. In ascolto. La donna, nell’altra stanza, singhiozzava mormorando ad intervalli regolari come un disco rotto. Si avvicinò alla specchiera. Attese che le luci si spensero e poi qualche minuto ancora. Bussò sul vetro.
Sentì una voce dall’altra parte, attenuata, non forte come prima.
-Chi è?
-Mi chiamo Blanco. E’ inutile rivolgere domande a loro, sono qui solo per spezzarci. Gli hanno ordinato di non parlare mai con noi. Domani porteranno del cibo e le carte che ci riguardano. Non temere, fuori non sentono nulla quando la luce è spenta.-
-E tu come lo sai?
-Questo posto lo ho progettato io.-

Quando Gutiérrez entrò nella Stanza Blanco da principio non lo riconobbe, portava la barba ed era ingrassato parecchio. Aveva i bottoni della divisa fuori posto, come se fosse stata indossata in fretta, il vassoio del cibo stava in equilibrio su un faldone per documenti portato per lungo, a due mani. Blanco lo guardò distrattamente poi prese a massaggiarsi le gambe. Forse era l’unica parte del corpo che non gli faceva male. Una scusa per fare qualcosa. Per distogliere lo sguardo da chi aveva potere di vita e di morte su di lui. Abbassò gli occhi con il cuore in gola. Preparò mentalmente ogni fibra del suo corpo a ricevere altro dolore. Gutiérrez si avvicinò, poggiò il vassoio e il faldone a terra. Blanco con la coda dell’occhio vide due stivali avvicinarsi. La guardia si fermò. Blanco trattenne il respiro. Sentiva qualcuno troneggiare su di lui. Era piccolo. Impotente. Gutiérrez lo sfiorò con la punta di uno stivale. Blanco trasalì e alzò gli occhi. Gutiérrez, spalle alla porta, avvicinò il dito alla bocca facendo segno di tacere. Solo allora a Blanco capì chi fosse. Azote, come lo chiamavano al cantiere, aveva lavorato nella sua squadra per anni. Si allontanò da lui sempre dando le spalle alla porta. Inciampò sulla camicia di Blanco che stava arrotolata contro il muro. Aprì la giacca, si accosciò. Spostò la camicia. La rimise a posto e andò via. Come era finito lì? Odiava ogni forma di costrizione. Riusciva a farsi sorprendere ubriaco a lavoro un giorno sì e l’altro pure. Blanco aveva perso il conto delle volte che lo aveva coperto, in un modo o nell’altro solo perché riusciva a farlo ridere. Una vita fa.

-Mi senti?- Disse Blanco.
Dopo parecchie pulsazioni del suo cuore parlò di nuovo, più forte.
-Hanno portato da mangiare anche a te? E le carte?
-Qui c’è un vassoio e accanto una specie di scatola. Io non ho toccato nulla. Non voglio avere niente a che fare con loro.-
-Mangia e leggi i documenti che ti hanno portato. Possono entrare e costringerti a farlo. Io lo farò. Blanco mangiò qualcosa e aprì il faldone.

Su quanto accade nella Stanza si fanno mille ipotesi. C’è persino chi sostiene che i tasti siano fasulli e che dall’altro lato presta la sua opera un attore professionista per farti confessare. Comunque, stando alle carte, nella stanza accanto a quella di Blanco c’era Maria Garcia, 23 anni. Aveva ucciso il marito. Foto del cadavere in un lago di sangue. Foto di un enorme coltello da cucina con una targhetta numerata, lama macchiata di grumi scuri. Deposizioni trascritte dalla policía: “colta in flagrante”, “inaudita ferocia”, “ventotto coltellate di cui sette fra collo e viso”. Poi trascrizioni dell’interrogatorio fatto ai vicini che avevano chiamato quattro volte negli ultimi mesi la policía per i loro litigi. C’era pure la foto di un bambino. Sui 9 anni, con la frangetta, aspetto furbo e una luce vispa negli occhi. Blanco pensò che a voler ripetere adesso lo stesso scatto quel bambino avrebbe avuto un aspetto assai diverso. Più dimesso. Più triste. Forse la luce negli occhi non ci sarebbe stata mai più. Alla fotografia era spillato un foglio dell’orfanotrofio di Omoa. Blanco soppesò la possibilità di non dire nulla ma poi pensò che una madre certe cose deve saperle, che è suo diritto.
-Tuo figlio è stato portato all’orfanotrofio di Omoa, mi dispiace, è scritto fra queste carte.-
La donna cominciò a ripetere: “O mio Dio” senza fermarsi. La voce tremava e sussultava. Blanco pensò che quello doveva essere il rumore di ogni angolo della sua anima che si infrangeva.
Forse anche lei aveva letto i documenti che lo riguardavano. Non ebbe la forza di chiederlo.
A voler credere a quei fogli la cosa era semplice, si sarebbe dovuto avvicinare alla specchiera e premere il pulsante rosso. Limpido. Lineare. Da buon cittadino. Avrebbe dovuto farlo al momento opportuno ma voleva farlo? E il figlio? Decise che questo non era il momento. E così passò un altro giorno. La luce si spense con il solito tonfo elettrico che ormai decretava il passaggio fra veglia e sonno nel suo inferno personale. Si mosse verso l’angolo di muro che aveva trasformato nel suo letto di fortuna. Mise un piede nudo nella pozza d’urina. Provando disgusto cercò la camicia nel buio, a tentoni. Quando la trovò tentò di adagiare il suo corpo sul pavimento evitando il contatto fra la superficie dura e tutte le parti del corpo che gli facevano male. La cosa, semplicemente, non era possibile. Si rassegnò abbandonando la testa sulla camicia. Era strana. La alzò nel buio. Qualcosa rotolò contro di lui. Prese in mano l’oggetto cilindrico. Non capiva. Lo tastò sino a quando non trovò un pulsante. La luce della torcia gli si accese contro la faccia accecandolo. La nascose con una mano, senza spegnerla. Avrebbero potuto vedere qualche bagliore da sotto la porta o dalla finestrella che si poteva aprire sulla porta per consentire alle guardie di osservare l’interno della Stanza. Gli occhi si adattarono. Un po’ di luce filtrava fra le dita. Blanco vide una forma davanti a se. Si avvicinò per illuminarla meglio sfruttando quel tenue rossore crepuscolare. Vide il cacciavite. Spense la luce. Doveva pensare.

Perché Gutiérrez gli aveva dato un cacciavite? Riusciva a comprendere il senso della torcia ma perché il cacciavite? Non puoi mica fuggire da lì usando un cacciavite. Doveva esserci un motivo valido. Qualcosa di importante… rischiava grosso nel fare una cosa del genere. Era necessario riflettere. Vagliò almeno una dozzina di idee. Ci mise quasi tutto il tempo in cui la Stanza rimaneva al buio. Quel luogo lo aveva ideato lui. Sapeva quanto fosse necessario sapere. Doveva richiamare ogni particolare alla mente… Usarlo come arma? Sarebbe stato un suicidio. Come perno per la porta? Assurdo. La sedia? Era assicurata con bulloni al pavimento. Niente. Non gli veniva in mente niente. I problemi complessi richiedono un approccio che li semplifichi. Allora pensò alle viti e alla loro collocazione. Le uniche viti a vista, se ricordava bene, erano quelle della targhetta con la scritta che nascondevano la scatola elettrica della pulsantiera. Ovviamente solo il “suo” lato della pulsantiera perché l’altra pulsantiera era oltre il muro. Blanco prese cacciavite e torcia e, al buio, raggiunse la specchiera. Attese in silenzio alcuni minuti, in ascolto. Non si muoveva nulla. Accese la torcia e con tutta la velocità di cui era capace svitò la targhetta poggiandola a terra. Uno dei due connettori, quello del pulsante rosso, era staccato. Avevano decretato la sua condanna a morte senza possibilità di appello ancora prima che fosse nella stanza. Lo collegò di nuovo e riavvitò la targhetta. Adesso doveva nascondere torcia e cacciavite. Doveva farlo in fretta. Gli venne in mente una sola possibilità. Andò al cassone dello sciacquone e lo aprì. Dentro c’erano delle carte che gli davano impaccio. Le tirò via lasciandole cadere a terra. Non indugiò su di esse se non per un battito di ciglia, vergate in stampatello con una grafia grossolana. In alto a destra avevano dei numeri. Sentì un rumore vicino alla porta. Tentò di fissare tutto nella memoria. Spense la torcia. Aiutandosi con il tatto riuscì a metterla in modo da non farla bagnare, almeno lo sperava. Il cacciavite lo buttò dentro alla meglio. Richiuse il cassone piano per non fare rumore, poi cercò con le mani i fogli sul pavimento e li infilò nel pantalone quindi andò a dormire per il tempo che gli restava.


  9
NELL’ALTRA STANZA LO STANNO PESTANDO. LO SENTO URLARE, SPERO CHE DOPO NON TOCCA A ME SPERO CHE SI STANCANO ABBASTANZA DA LASCIARMI STARE. NON PENSAVO DI POTER SPERARE CHE SPACCHINO LE OSSA A UN ALTRO FINO A NON POTERNE PIU’ MA QUESTO POSTO E’ DURO. MEGLIO LUI CHE IO. EPPOI CI HA PROVATO GIA’ DUE VOLTE MENTRE MI SONO ADDORMENTATO CON LA LUCE. HO SENTITO LA CAMPANA E MI SONO MESSO A CORRERE E HO PREMUTO IL PULSANTE ROSSO COSI’ NON E’ SUCCESSO NIENTE. PER FORTUNA QUANDO SPENGONO LA LUCE NON SI POSSONO PREMERE NEANCHE I PULSANTI ALTRIMENTI TENTEREBBE ANCHE AL BUIO NE SONO SICURO.

  11
CI HO PARLATO. ALLA FINE E’ UN POVERACCIO COME ME CHE E’ ANDATO ALLA MANIFESTAZIONE PERCHE’ AVEVA FAME E SIVA PROMETTEVA DI DIVIDERE LA TERRA DEGLI ZUCCHERIFICI ALLE FAMIGLIE POVERE. BE’ NON E’ ANDATA BENE NEANCHE A LUI. SECONDO ME MICA LO HA TOCCATO QUELLO C’HA PAURA PURE DELL’OMBRA SUA. NON CE LO CREDO CON UN BASTONE IN MANO A DARLE ALLA POLICìA. MA COMUNQUE CIOE’ VOGLIO DIRE AL MOMENTO GIUSTO IL PULSANTE LO PREMO FORSE UN POCO MI DISPIACE PER LUI MA TUTTI FAREBBERO LO STESSO.

  12
QUELLO PARLA UN SACCO. STA RACCONTANDO UN SACCO DI COSE. MA COSA PENSA CHE NON CI ASCOLTANO? SICURO COME LA MORTE UN SACCO DI GENTE FINIRA’ QUI PER COLPA SUA CHE NON SA TENERE LA BOCCA CHIUSA. PRIMA LA FACCIO FINITA CON LUI MEGLIO E’ PER TUTTI.

  5
MA ALLA FINE IO COSA HO FATTO? SE, VABBE’ QUELLA VACCA MI HA PROVOCATO MA REGOLARE CHE LO VOLEVA SE NO MICA SI VESTIVA COSI’ POI SECONDO ME SOLO PERCHE’ QUELLO LA HA SCOPERTO ALLORA HA DETTO CHE SONO STATO IO SE NO STAVA ZITTA SICURO CHE ALLA FINE LO SAPEVA PURE LEI CHE NON PUOI INVITARE UNO A MANGIARE E POI TOGLIERGLI IL PIATTO DA SOTTO LA FACCIA PERCHE’ HAI CAMBIATO IDEA.

  2
OGGI MI HANNO PORTATO STI FOGLI CON DIETRO UN SACCO DI STRONZATE MA A ME NON INTERESSA TANTO IO MICA SONO UN BURATTINO CHE CREDO A QUELLO CHE MI SCRIVONO. MANCO LI LEGGO LI HO STRAPPATI TUTTI E NELLE PARTI BIANCHE CI SCRIVO LE COSE MIE CON STA PENNA CHE E’ CADUTA A QUALCHE GUARDIA VICINO ALLA TAZZA. LORO MICA LO SANNO CHE HO UNA PENNA, MAGARI GLIELA PIANTO IN UN OCCHIO COSI’ MI PORTO DIETRO UNO DI STI BASTARDI.

  1
HO PREMUTO IL ROSSO E LUI NON HA FATTO NIENTE.
CIOE’ MI HA GUARDATO E BASTA COME A DIRE VABBE’. SECONDO ME PERCHE’ LO PESTAVANO TUTTI I GIORNI E LUI NON NE POTEVA PIU’. HO GUARDATO NELLA SPECCHIERA. LA SUA STANZA SI E’ RIEMPITA DI NEBBIA. HA COMINCIATO A TOSSIRE FORTE POI SEMPRE MENO. DAL RUMORE FORSE PURE VOMITAVA. POI PIANO PIANO LA NEBBIA SE NE E’ ANDATA E LUI ERA A TERRA E NON SI E’ MOSSO. NON SI E’ MOSSO PIU’. MI SA CHE DOMANI ESCO. PRIMA COSA VADO A CERCARE LA VACCA. NON HO MICA FINITO CON LEI.

La luce si spegne. Passa un po’ di tempo e Blanco riflette sulla situazione. E’ nella Stanza da diciassette giorni. Ha parlato parecchie volte con Maria. Il più delle volte al buio. Da quel posto non potranno uscirne tutti e due. Lo sa Maria. Lo sa Blanco. La situazione è chiara. Devono decidere. Però non è facile scegliere così, freddamente, chi deve vivere e chi deve morire. Prendere l’altro per sfinimento accoppandolo appena possibile oppure trovare un accordo su chi dovrà smettere di respirare? A voler essere più precisi quelle sono solo le scelte ovvie. Tecnicamente esiste la terza opzione, poco praticabile, di suicidarsi entrambi premendo contemporaneamente il nero e, persino, una quarta che discende dalla terza ovvero tentare di bluffare convincendo l’altro che premerete i tasti neri e, invece, premere il rosso all’ultimo momento. Ovviamente quest’ultima è una via percorribile solo se l’altro ha intenti suicidi e tu sei un ottimo attore. Nel caso di Blanco la commedia non funzionerebbe e lui non vorrebbe fare parte di un simile osceno teatrino. Altro? Per i puri di spirito o meglio nell’improbabilissima eventualità che due santi possano trovarsi separati solo dal muro della Stanza si può decidere di non premere alcun pulsante e magari morire di stenti. In quel caso sopravvive chi resiste di più. Non tanto alla mancanza di cibo, se sei in salute la puoi tirare per le lunghe, quanto alle frequenti visite delle guardie che mescolandoti le ossa tentano di spronare verso una maggiore risolutezza. In questo caso il giudizio è rimandato a Dio (per chi ci crede). Con la spada fiammeggiante abbatterà l’empio per consentire al giusto di continuare a redimere inutilmente il mondo. O magari nei suoi piani inconoscibili l’Altissimo potrebbe anche decidere di fare esattamente l’opposto chiamando a se per primo proprio il giusto, di fatto salvando l’empio, che potrà così avere il tempo per redimersi guadagnando il paradiso. Il paradiso è stato già guadagnato dal giusto quindi questo merita di essere chiamato al cospetto del Supremo Giudice nella beatitudine, lontano da ogni patimento. Se sono egualmente giusti i due sventurati? Funziona comunque. Tutti e due meritano di elevarsi oltre la vita quindi moriranno assieme nella Gloria del Signore. Insomma una sorta di Giudizio Supremo destinato agli aspiranti martiri. A loro nei fatti va bene tutto. Moderna ordalia per un paese cattolicissimo. Blanco odia l’incredibile stupidità associata alla fede. Prova disgusto e con la mente passa oltre tanto non è sicuramente fra i giusti. Di quel posto lui e lui solo aveva concepito l’idea primigenia di fatto generando consapevolmente un luogo di sterminio. Questo aveva il vago afrore dolciastro del peccato mortale. A dire la verità lui la aveva un po’ presa alla leggera. Era andato avanti così… lievemente. Chi fa progetti semplifica. La sua concezione di come “gestire” un luogo del genere era da principio più banale, fumosa, poco definita. Aveva immaginato un luogo di reclusione in cui i reclusi si giudicano fra loro in tempi rapidi. Punto. Poi la sua attenzione si era spostata sui muri, le tubature, gli impianti elettrici e cose del genere passando la palla delle regole e dei regolamenti ad altri. Più politici. Quindi con l’anima tinta di nero notte. Canela aveva alla fine suggellato il tutto limandolo e perfezionando ogni aspetto di questa idea un po’ rozza attingendo al suo personalissimo ingegno. Persino il manuale di condotta che guidava il comportamento delle guardie era frutto delle sue personalissime fatiche. Ne era scaturita una macchina priva di qualsiasi compassione. Folle di una agghiacciante lucidità aveva affilato il metodo come un rasoio. Un rasoio brandito con l’inumana sicurezza di chi sa che può dividere il bianco dal nero con un solo rapido, sapiente, calcolato colpo.

Blanco barcollando, tenendosi in piedi appoggiato alla pura volontà, si avvicina alla specchiera e bussa contro il vetro. Questa oscenità doveva finire. Se era stato lui a iniziarla doveva essere lui a concluderla.
-Allora quando si accenderà la luce io premerò il pulsante nero e tu avrai un minuto per pensare. Ma non farlo. Premi subito o ti verranno dei dubbi. Hai capito quello che ti chiedo?
-Perché vuoi farlo?
-Tu hai un figlio. Io no. Non ho niente là fuori e mi vogliono morto. Ormai per loro è cosa decisa.
-Non voglio altro sangue sulle mani. Non il tuo. Non credo a una parola di quello che hanno scritto su di te. Tu non hai ucciso nessuno… vero?
-Sicuramente non ho strangolato nessuno. Non ho fatto quello che scrivono nella carte che ti hanno dato, questo è vero. Magari se proprio volevano celare il mio coinvolgimento in tutta la faccenda potevano inventarsela un po’ meglio ma non è questo il punto. Comunque sono già morto. Di qui non uscirò mai. Non portano cibo da tre giorni ma ricordano comunque di fare continue visite alle mie costole per frantumarle ulteriormente. Quanto pensi possa resistere ancora? E se la Stanza mi risparmia secondo te chi mi ci ha fatto entrare mollerà la presa? Troveranno il modo. Quindi devi farlo.
-Ma…
-Non farti sopraffare da qualche rigurgito morale. Non sono un brav’uomo. Questo posto è uscito dalla mia testa. Ho ideato ogni cosa qui e ogni morto pesa sulla mia coscienza. In un attimo mi ci sono trovato dentro mani e piedi e sarebbe andato tutto liscio solo che ad un certo punto ho cominciato ad ascoltare questo benedetto tarlo che stride nella testa dei deboli. Tutto è cominciato piano piano. Mi dicevo che era un progetto come tanti. Come una diga o un ponte. E lo ho fatto. Ma non era vero. Qui la gente sarebbe morta e quando hanno cominciato a usarlo io ho smesso di dormire. Ogni notte mi chiedevo: “Quanti saranno stati oggi?” Potevo rifiutarmi. Non lo ho fatto. Per loro ho fatto un solo errore: ho cominciato a parlare. Ho raccolto progetti e documenti, stavo per consegnarli ai giornali. Io non ne sarei uscito bene ma forse si sarebbero fermati. Mentre ero al mio solito bar, con il tizio a cui avrei dovuto consegnare tutti i documenti l’indomani discutendo in disparte su come farmi uscire dal paese, qualcuno mi ha mandato un cicchetto regalo. Ho capito che era una cosa strana quando lo ho visto uscire prima di poterlo ringraziare. Sul tovagliolo c’era scritto “puzza”. Lo aveva riconosciuto. Informatore. Come tanti. Ho bevuto il cicchetto, mi sono soffiato il naso con il tovagliolo e ho fatto finta di niente. “Ci vediamo domani” ho detto. Ma lui deve aver notato tutto. Perché il secondo errore è stato tornare a casa. Volevo riordinare le idee e mettere insieme un piano. Mi hanno preso lì. Ma le carte non le hanno trovate. Hai capito dove sono?
-Si.
-Se esci di qui portale all’ambasciata francese. E’ tutto quello che ti chiedo. Prendi tuo figlio in qualsiasi modo ti riesca e vai di filato all’ambasciata francese.
-Ma io mio marito lo ho ammazzato sul serio, non mi lasceranno tenere mio figlio.
-Mi hai detto che si ubriacava e vi picchiava. Magari dici che avevi paura per tuo figlio. Che quella sera temevi potesse ucciderlo. Che sia vero o no non ha importanza. All’ambasciata leggeranno le carte e non ti rimanderanno indietro.-

Proprio in quel momento la luce si accese.
Blanco si trascinò fino al centro della Stanza e si mise ad attendere.
Pensò alla propria vita. Forse si pensa sempre alla vita quando si sta per morire.
Al suono della campana pensò che forse era un po’ meno infelice, adesso.
Poi tirò un respiro e attese di essere avvolto dal gas ad occhi chiusi per circa un minuto. Un minuto è davvero lungo quando sai che è il tuo ultimo minuto.
Pensò a sua madre. La perdonò.
Poi aprì gli occhi e accettò quel pulsante bagliore che si muoveva in spire attorno a lui. Espirò e inspirò.
Non fece alcuna resistenza.
Stava regalando la vita a una madre e a un figlio.
Stava tentando di fermare l’orrore che aveva evocato.
Sì. In fondo questo era un momento felice.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *