C’è chi va a Parigi per giocare ai poeti maledetti e c’è chi si fa bastare lo sporco appartamento di una periferia di provincia. C’è chi va a Parigi a parlare d’amore sulle rive della Senna; chi va a Pigalle, a Montmartre, al Bois de Boulogne. C’è chi rincorre ragazze in fiore nei parchi di una Parigi senza tempo, accostando i colori dei loro occhi alla lucida copertina di quei Verlaine; e nonostante lʼuso di termini come “verga” e verbi come “accogliere”, qualcuno riesce anche a scopare.
Ma noi, no. A noi basta un buco qualsiasi; l’odore acre di pelle lucida; un divano sfondato e del vino industriale dal gusto acerbo di cartone. Noi ci perdiamo nei colori del packaging, senza definirci né poeti né bevitori. Ci basta l’olezzo degli scarichi fognari di quel rivolo chiamato fiume e parlare non ci serve, ché ad aprire bocca vomitiamo solo alcool e surgelati mal cotti. Non facciamo che crogiolarci nella puzza della nostra merda, unica poesia scritta tra un panino e l’altro.