N. avrebbe dovuto già essere qui. Sono stremata, ma nonostante il suo ritardo, attendo. Spalle alla strada, costato che potrebbe essere la mia ultima volta sul litorale. La brezza, le mie valigie e il sole mortale; le vele bianche in mare sono ali di gabbiano intrappolate e in acqua e in aria. Se avessi fissato il flessuoso fianco della montagna tanto a lungo, come negli ultimi anni, un giorno mi sarei chinata anch’io, dolcemente, verso l’orizzonte.
Lascio i bagagli bene in vista, di fianco alla strada, e dalla cima ridiscendo la scalinata sassosa spruzzata d’oleandro, verso un punto più basso della roccia.
N. parlava sempre al condizionale. Credo non verrà. Ridefinire i confini entro cui si è costruita l’intera vita, è un’impresa temeraria. Suo marito è una brava persona. N. no, non lo è. In parte per come mi ha trattata in questi mesi e in parte perché la sua vigliaccheria riflette la mia. Alla mia età dovrei rassegnarmi alla solitudine. E invece imparo quotidianamente come la paura istighi di continuo forme nuove di meschinità.
Giungo in uno slargo. C’è odore di erba umettata. Gli insetti mi banchettano sulla pelle. Scorgo a ovest alcuni pescatori che stanno trainando a terra reti piene di pesci. Dalla borsa tiro fuori alcuni legacci di cuoio. Raccolgo pietre comuni, per ingannare l’attesa, e ne faccio collana da regalare a N. quando verrà a prendermi. La indosso… è pesante.
Mi avvio verso il ciglio dello slargo e, sporgendomi, la vertigine della parete rocciosa a picco sul mare mi stringe lo stomaco. Nutro per N. un’ebbrezza simile, e insieme la lieve sensazione di mutande umide, nell’immaginare la nostra vita insieme.
Penso a N. come a una furia cieca capace di impartirmi la lezione, ogni volta, a me che sono la sua riva affatto malleabile al volere dell’onda. «Potremmo andarcene» mi aveva detto N. Odio quel potenziale inespresso che finiva per tramutare N. in una persona del tutto ipotetica. E io, stupidamente, avevo messo il resto: le gambe, il fiato, la rabbia, le valigie, il licenziamento.
Muovo un altro passo verso lo strapiombo. Un bel venticello spira sulla rupe e sugli interminabili quarti d’ora che consumo ipotizzando il salto. E per quanto assurdo e insensato, ho la vita appesa a un condizionale; il collo nelle mani di N. che oggi ha il potere di spezzarlo in due. Se scivolassi giù, sotto il peso della collana, questo stesso sentimento lo esprimerei per l’acqua che, cinquanta metri più in basso, m’impone il canto perpetuo di suoi flutti sfasciati, cui sento di dovere obbedienza. Questo è l’abbandono, simile alla fiducia, simile all’amore volgarmente detto. N. non verrà, schiacciata com’è dalla sua mediocrità d’individuo. E io vorrei saltare nell’abbraccio vuoto di ogni centimetro che mi separa da lei, dall’acqua irascibile.
All’improvviso, sento il fragore di un’auto sopraggiungere sul capo del pendio.
E’ venuta, penso. Prendo la borsa e mi precipito sugli scalini; lascio dietro di me lo slargo, la possibilità del salto. L’auto si è fermata una decina di metri più su. Spero macchinalmente che abbia notato i bagagli; poi metto il piede in fallo e inciampo sbucciandomi le ginocchia. Il rumore di uno sportello che si chiude mi sprona a proseguire. Ho le mani insanguinate.
Col fiatone, giungo a livello strada. Quell’angolo di mondo è nuovamente deserto, ora. Sopra i miei bagagli, sporco del mio sangue, c’è un biglietto di N.