1. Immagina l’umanità fra mille anni. Quante storie, filosofie, letterature si saranno aggiunte a quelle che già fanno traballare i nostri scaffali? Quanti romanzi saranno scritti? Quanti versi? Nei programmi scolastici sarà necessario semplificare se non eliminare, in alcuni casi magari, interi periodi storici. Forse la lingua di molti scrittori, il mondo sotteso negli spazi bianchi tra una riga e un’altra, gli universi paralleli del non-detto, del contesto, saranno troppo oscuri per queste lontane generazioni e magari alcuni saranno dimenticati, relegati in biblioteche specializzate, per topi da biblioteca, i più fortunati saranno ritradotti in una lingua più nuova … Potresti chiederti se valga la pena scrivere ancora, e quindi se aggiungere altro a quello che già c’è e ci sarà. Guarda alla Natura: le stelle nascono, brillano incredibilmente e muoiono in esplosioni di proporzioni incommensurabili, e lo fanno senza preoccuparsi che qualcuno si ricordi di loro o che stia a guardarle seduto in poltrona; fanno quello che devono fare e spariscono con educazione, in attesa di altre. Scrivere, alimentare la fiammella flebile ma decisa della cultura, non è un processo che si può interrompere. Va fatto. Di questo siamo convinti e per questo proponiamo la nostra rivista NKK.
2. NKK non vuole cambiare il mondo. NKK non è né di indirizzo marxista, impegnato, né tantomeno idealista, borghese e qualunquista. NKK venera la poesia e la letteratura. NKK vuole celebrare la bellezza, in sé, ma soprattutto come risultante di infinite, laboriose distillazioni del brutto, del male, dell’innominabile. NKK ritiene che la bellezza ci salverà. NKK non ha nulla da dichiarare perché si ripromette d’essere parziale e contraddittoria. NKK spera di essere un sano elemento di disordine. Non occupa posizioni, non riempie vuoti. NKK si propone di diffondere la scrittura del gruppo NKK, racconti, poesie, articoli di (contro-)cultura e recensioni letterarie di ciò che ci pare significativo (non necessariamente per gli altri, né per tutti), o magari trascurato nel marasma.
3. NKK dà valore al passato, non lo dimentica. Se rileggi il frammento in corsivo e sostituisci ad NKK la parola Quindici, puoi ritrovare un lacerto dell’incipit del primo editoriale della rivista del Gruppo 63, uscita del lontano ’68. Non è un quiz di storia della letteratura, ma un tentativo di rivitalizzare un atteggiamento importante. Sebbene la natura di Quindici fosse diversa da NKK, in quanto pubblicava articoli di cultura, politica, articoli sulla letteratura, quello spirito combattivo, fiero, di proporre le proprie idee — spirito che non fa mai i capelli bianchi —, ci pare adeguato alle nostre intenzioni. . I membri del Gruppo 63 non avevano nulla in comune se non il proposito di innovare la letteratura, perciò rappresentavano una nuova avanguardia. Per noi l’obiettivo non è innovare la letteratura, principio sterile, quasi una regola di un gioco che ci si è imposti di seguire, ma esprimere in maniera onesta il nostro modo di concepire/fare letteratura, il nostro punto di vista, feritoia privilegiata unica. Siamo accomunati dalla geografia, in quanto tutti calabresi, ma la nostra non è una letteratura campanilistica, vernacolare nel senso più deteriore del termine, di denuncia della mala-sanità, della mala-politica. Volenti o nolenti non possiamo evitare di inoculare l’effetto che i mali della nostra terra hanno su di noi, ma aborriamo gli atteggiamenti provinciali di chi attribuisce alla letteratura la funzione di un dito puntato sui mali, che spesso sono solo la cristallizzazione di qualcosa di molto più profondo e invisibile. Attingiamo dalla nostra terra un patrimonio linguistico che arricchisce la nostra lingua, ibridizzandola e rendendola ancora più elastica. Questo sul piano formale. Scorrendo queste pagine troverai delle meravigliose fotografie in bianco e nero che mettono a confronto il posto in cui viviamo, in cui siamo nati, con il resto del mondo: differenza di potenziale dalla gigantesca forza generativa.
4. Non crediamo che la letteratura, almeno quella valida, sia impegnata per necessità. L’impegno, secondo la definizione del Devoto-Oli è «assunzione di una precisa posizione ideologica e pratica nei confronti dei problemi politici e sociali del momento, specialmente da parte degli uomini di cultura». Per noi la funzione della letteratura non è la presa di posizioni ideologiche o l’azione di mascheramento, all’interno della narrazione, di decaloghi del buon cittadino del nuovo millennio affogato da un eccesso d’informazione, di stronzate veicolate dai social e dalle televisioni; riteniamo fondamentale scatenare, trasformare in cellulosa, per dirlo con Proust, «tutti i beni e tutti i mali possibili; nella vita vera impiegheremmo degli anni per conoscerne alcuni, e i più intensi tra questi non ci sarebbero mai rivelati, perché la lentezza del loro determinarsi ce ne toglie la percezione. […] Un essere reale è in gran parte percepito dai nostri sensi, vale a dire ci resta opaco […] L’ingegnosità del primo scrittore è l’idea di sostituire a quelle parti impenetrabili dell’anima una pari quantità di parti immateriali che la nostra sensibilità può assimilare»[1]. Noi siamo fedeli a quella idea.
5. In realtà, non possiamo evitare (neanche volendo) di isolarci, nella scrittura, dai problemi del mondo che viviamo ma questi problemi/influenze vengono digeriti e trasfigurati dai succhi gastrici delle nostre penne, e non necessariamente ne escono riconoscibili in generale, non ne daremo una chiara evidenza, mai dei giudizi, li lasciamo a qualcun altro. Cesare Garboli scriveva «si farebbe più presto a contare i numeri, o a cercare di baciare le proprie labbra che a chiedersi che cosa è la letteratura. Ieri era impegno, domani è già contemplazione del niente. Oggi è sinonimo di menzogna, ieri l’altro lo era di vita. Ma, comunque la si rigiri, in termini moderni la letteratura è sempre concepita “come”, cioè come assenza di qualcosa, come negazione di se stessa. Io arrivo solo a una tautologia. La letteratura è letteratura[2]». Anche la contemplazione del nulla è figlia del tempo, come esistono infiniti modi di guardare una cosa, infiniti filtri, infiniti specchi deformanti. Ancora Garboli aggiunge «si cambia solo quando ci si esprime, e si è soltanto quando si cambia. […] Basta esprimersi, e il mondo cammina, non c’è altro modo di cambiarlo». L’arte in sé non è impegnata, o comunque non deve esserlo per necessità. L’impegno è importante al di là della letteratura, quando questa viene digerita, reificata in qualcosa di più ampio del binomio lettore/scrittore, in una serie di infrastrutture culturali formata dai fruitori, lettori e critici, storici, antropologi; complementari ma necessarie, come le strade, ferrovie, aeroporti, per lo svolgimento della vita di una società. Ma che sono a serio rischio. La cultura sembra diventare sempre più liminare, confinata in spazi frequentati da pochi. Giulio Ferroni, nel suo pamphlet “Scritture a perdere – la letteratura negli anni zero”, parla della moderna televisione di massa, citando Maria De Filippi come un esempio di un mondo che «offre agli allievi assorti davanti allo schermo il sogno continuo di un’assunzione nel regno dello spettacolo, scuola dello scorrevole nulla…». D’altra parte la cultura è lasciata a canali liminari (frequentati da chi è già colto), e le infrastrutture culturali[3] non sono in grado di accogliere dei nuovi adepti. Perciò non diamo alla letteratura più responsabilità di quante non le competa. La morale non dovrebbe essere di competenza della letteratura, e dell’arte. Spesso è diventata, nella storia, competenza delle censure (Tondelli docet). Dante voleva indicare all’umanità, con la Commedia, la via da seguire. Più impegno di questo? Eppure è riuscito nell’intento? Secondo Umberto Eco «non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L’intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro romano Imperatore ai comuni italiani[4]». Viceversa, Petrarca ha messo al centro l’individualità, ma poniamoci una domanda: se non avesse scritto i sonetti avignonesi, il suo Canzoniere avrebbe avuto meno valore? D’altra parte, La critica, in questa che abbiamo definito una infrastruttura culturale complessa, sembra essere un collo di bottiglia: i critici parlano e scrivono per sé stessi, non sembrano essere interessati ad aprirsi e ad impedire che le strutture culturali continuino a versare in questo strato trombotico (quanto manca un Alessandro Barbero della critica letteraria in Italia!).
6. La letteratura deve farsi strumento di lettura, estetica, interpretazione del male, della sua portata generativa nell’arte, e che di solito viene nascosto dalla letteratura educativa o di propaganda. La letteratura è capace di trasformare il male in grazia, non ne parla per combatterlo, ma per conoscerlo, o che è la stessa cosa, per conoscersi. Conosci te stesso, cioè il male (che è in noi), «valore sovrano» della letteratura, per Bataille, non sua apologia, come un imbecille potrebbe dedurre; si tratta di una concezione che «non esige un’assenza di morale: essa esige piuttosto una “ipermorale”» perché ciò che è male contiene il bene, come la morte, che garantisce la vita. Pindaro: «Sogno di un’ombra è l’uomo» e ancora «Non desiderare di essere Zeus […] ai mortali conviene ciò che muore». Lo scrittore è un matto a cui una società illuminata (anche solo in parte) offre un lasciapassare, può mostrare violenza, razzismo, femminicidio. Il Male è oggetto della letteratura. Che la morale se ne faccia una ragione (e che non infici il giudizio estetico). Anche quando è lontana dalla realtà, o è apparentemente vacua, la letteratura vera celebra la bellezza, e in questo modo assolve alla sua funzione nell’infrastruttura culturale. Cosa c’è di più passivo [5] della nausea di Sartre, ma chi è stato più attivo di lui? Lui che ha assolto più di un ruolo all’interno di questa infrastruttura. Eppure la nausea è la risultante di un insieme di fenomeni esterni, che vanno interpretati e possono diventare azione, ma solo al di fuori del testo, nei ruoli citati. Ma il Sartre impegnato non era più scrittore, si faceva critico-filosofo-uomo/d’azione. Eppure Antonio Arpino, in una delle sue Lettere scontrose, gli domanda: «e allora, Sartre, dove siamo? Cosa indica la sua bussola? Quali ultime parole famose dobbiamo pronunciare? Noi che l’amammo, troppo facilmente credevamo di dover affrontare il mondo dei pirati […] Dobbiamo avviarci a un nuovo apostolato? […] Dopo le firme in calce a manifesti cultural/politici, dopo l’ingaggio che vedeva la posizione culturale subitamente travolta dai concetti che gli uomini di governo ritenevano più opportuni, al momento, cosa rimane? […] Cerchiamo di ritrovare il tempo dell’odio, del desiderio insaziato, della distruzione […] Per questo le chiediamo nuove parole, Sartre, e che siano l’estremo messaggio capace di confondere la nostra condizione, di spiegare in breve quel poco che ci rimane di sano in corpo, ancora sano ma torbido, difficile da tradurre». Forse Arpino denunciava la salute della precaria infrastruttura culturale di cui abbiamo già parlato, non certamente un difetto del Sartre solo-scrittore.
7. La non-necessità di un impegno si può dimostrare grazie alla musica. La musica non ha bisogno di parole. I musicisti per “impegnarsi” (se proprio vogliono) devono inserire le parole in musica. Berio ha usato la parola non per significare qualcosa, ma per offrire all’ascoltatore [6] La musica che impegno può assumere? Gliene si può dare licenza (di non avere impegno) perché non è fatta di significati ma solo significanti? L’idea flaubertiana di una scrittura del nulla, sul nulla, è quanto di più vicino, probabilmente, alla musica che uno scrittore possa produrre. Non avrebbe forse un posto altrettanto valido all’interno dell’infrastruttura culturale di cui stiamo parlando? La formulazione più nota dell’idea flaubertiana di impersonalità è forse nella lettera a Louise Colet del 9 dicembre 1852: «Quello che mi sembra bello, quello che vorrei fare, è un libro sul nulla, un libro senza attaccamento esterno, che starebbe da solo per la forza interna del suo stile, come la terra senza essere sostenuta, libro che non avrebbe quasi nessun soggetto o almeno dove il soggetto sarebbe quasi invisibile, se potesse essere. Le opere più belle sono quelle dove c’è meno materiale […] Ecco perché non ci sono soggetti né belli né brutti e che potremmo quasi stabilire come assioma, dal punto di vista dell’Arte pura, che non ce n’è, solo lo stile è un modo assoluto di guardare le cose» Dopo essersi scagliato contro la censura – «una mostruosità, qualcosa di peggio dell’omicidio» –, Flaubert estende il suo rifiuto del moralismo al versante della scrittura, si sofferma sulla Capanna dello zio Tom e scrive: «I pensieri dell’autore mi irritavano tutto il tempo. Dobbiamo pensare alla schiavitù? Dimostralo, ecco tutto. Questo è ciò che mi ha sempre colpito di più in The Last Day of a Convict. Non una riflessione sulla pena di morte (è vero che la prefazione fallisce il libro, se il libro poteva fallire). Guarda nel Mercante di Venezia per vedere se c’è qualche declamazione contro l’usura. Ma la forma drammatica ha quel bene, nega l’autore. Balzac non è sfuggito a questo difetto, è un legittimista, un cattolico, un aristocratico. L’autore, nella sua opera, deve essere come Dio nell’universo, presente ovunque e visibile da nessuna parte. Essendo l’arte una seconda natura, il creatore di quella natura deve agire secondo processi analoghi. Si senta in tutti gli atomi, in tutti gli aspetti, un’impassibilità nascosta e infinita. L’effetto, per lo spettatore, deve essere una sorta di stupore. Come è successo tutto? dobbiamo dire, e ci sentiamo schiacciati senza sapere perché. L’arte greca era in questo principio e, per arrivarci più velocemente, sceglieva i suoi personaggi in condizioni sociali eccezionali, re, dei, semidei. Non eravate interessati a voi stessi; il divino era l’obiettivo».
8. La letteratura vera è fenomenologia naturale, richiede altri studiosi per essere compresa come espressione del tempo in cui è nata. I critici, in questo senso, sono come dei fisici/matematici/biologi e la letteratura è uno specchio deformante, ma gli specchi sono immobili, non possono agire se non nella mente di chi legge e vede riflessa una prospettiva inedita del mondo, dei suoi mali in particolare. Citiamo ancora Bataille: «Gli uomini si misconoscono nel bene e si amano nel male. Il bene è ipocrisia. Il male è amore. L’innocenza è l’amore del peccato»[7]. Gli altri attori, in primo luogo i critici, hanno la responsabilità di tracciare queste cartografie del male e renderle comprensibili. La letteratura è innocente come un bambino che domanda perché c’è la morte, perché si diventa vecchi, la letteratura è «il sospirato ritrovamento dell’infanzia»; non è l’impegno, dove il verbo essere ha qui l’accezione di segno di eguaglianza, ma può concorrere a formarlo. Per noi lo scrittore è un matto nel senso rinascimentale e foucaultiano del termine, non da chiudere in manicomio, ma da trattare come voce e punto di vista privilegiato, eletto a consigliere dagli illuminati.
9. Non esistono ideologie totalizzanti.
10. Chiarita la nostra posizione rispetto alla letteratura, resta da presentare la rivista nei suoi contenuti. In primis, racconti e poesie di noi membri di NKK ma anche di autori esterni, in linea con il nostro sentire e fare letteratura, mediante opportuni bandi e chiamate alle armi; poi articoli di cultura, mini-saggi, recensioni, per farci, in piccola misura, parte dell’infrastruttura culturale di cui si sente la mancanza. La ragione è esattamente nello spirito indipendente della rivista. Riprendendo il gioco degli specchi sul primo editoriale di Quindici, chiederemo volta per volta ad autori estranei al nostro gruppo di partecipare al discorso. Non faremo alcuna discriminazione ideologica o di generazione: basterà che ci siano simpatici e che ci piacciano le loro idee. La nostra scrittura verrà, in questo modo, incastonata in una cornice, per quanto frammentaria e parziale. Ti chiederai ancora se serve a qualcosa. Non è importante. Nel Mahabharata è descritto un episodio in cui il guerriero Arjuna è disperato, non sa più da che parte sia giusto schierarsi, non sa chi ha torto e chi ha ragione, e soprattutto non sa quali conseguenze possano avere le sue azioni, da una parte o dall’altra, perché potrebbe avere risultati opposti rispetto alle sue intenzioni. Allora interpella Krishna e gli domanda cosa deve fare. E Krishna gli domanda, tu che cosa fai, chi sei? Un guerriero, e un guerriero deve combattere, non deve importargli niente della vittoria o della sconfitta. Nello spirito del gioco delle sostituzioni con cui si è aperto questo editoriale, sostituiamo la parola guerriero a scrittore, o anche a lettore. «Cerca rifugio in questa disciplina, senza attaccamento alcuno. Il successo o l’insuccesso sono uguali. Coloro che bramano il frutto delle loro azioni sono da compiangere. La mente pura e devota considera uguali bene e male. Preparati al combattimento e non patirai alcun male. Perciò raccogli il coraggio e applicati a questa alta disciplina».
[1] Dalla parte di Swann, Marcel Proust, Einaudi, pag.. 64-65
[2] La stanza separata, Mondadori editore, 1969
[3] si pensi al ruolo che la televisione aveva negli anni cinquanta, educazione del popolo alla lingua ma non solo, in tempi in cui si davano Pirandello o Eschilo in prima serata.
[4] Umberto Eco, “Sullo stile del Manifesto”, in “Storia della filosofia – ottocento e novecento”, Laterza, 2014
[5] Non è importante l’atteggiamento, passivo o attivo. L’importante è che non diventi facile manierismo, piangersi addosso con atteggiamenti simbolistico-decadenti, ma che sia intrisa di sano male contemporaneo, oltre che di quello eterno, legato perlopiù all’individuo, che sono la benzina che muovono il motore della letteratura. Un uomo completamente isolato non è in grado né di parlare né di scrivere, ma solo di parlarsi e di scriversi addosso. La letteratura vera non è mai disimpegnata neanche quando pare estranea a qualsiasi faccenda umana. Anche gli uomini soli e monologanti, deliranti, di Bernhard e Beckett, non sono che lo specchio di un mondo esterno, e la triturazione della realtà e la sua riduzione a puro discorso, apparentemente vuoto e inutile, non sono che le macerie di un’esplosione cosmica inenarrabile. A meno che non aspiri a un puro prodotto commerciale, un autore che non sia mosso da semplice egoismo, che non riduca la scrittura ad astratto manierismo simbolista-decadente, non può evitare di trasformare in grazia gli orrori: i primi, quelli privati ed eterni (la morte, il senso della vita); i secondi, quelli pubblici ed esterni (l’attrito con un sistema che in ultima analisi crea una differenza di potenziale decisiva al risultato, anche se si fatica a riconoscerne i lineamenti precisi, il collegamento nel prodotto); e lo fa senza alcuna velleità ideologica. I primi sono senz’altro quelli più percepibili, la materia grezza che viene scaldata e plasmata dalle mani dello scrittore; i secondi sono presenti anche se non si vedono. E quella grazia si porta appresso una visione del mondo, a brandelli, ad effetto pixel, ma che permette di leggere, a chi ha occhi per vedere, il mondo, inteso in senso umano, con un’intensità che ad altri uomini di cultura non è concessa di esprimere ma solo di fruire. E quei lineamenti, oltre a ciò che collega l’opera al mondo che ha contribuito a generare l’opera, non è lo scrittore che deve chiarirlo, non è detto neanche che sia completamente cosciente egli stesso di tutte le determinazioni. La critica deve farsi ponte con la coscienza dell’uomo della strada.
[6] Dopo la scuola di Darmstadt, i musicisti, infatti, privilegiano il lavoro puramente strumentale e, nel caso vi sia un testo, trattano le voci come strumenti per studiare le possibilità espressive dell’emissione sonora, alla ricerca di suggestioni fonetiche in una continua ed esasperata scomposizione della partitura verbale in unità primigenie quali sillabe, vocali e consonanti isolate che annullano il valore semantico della parola. Il compositore francese P. Boulez ha voluto indagare le motivazioni di questo agire della musica nei confronti della parola, confermando l’uso del testo poetico “senza significato semantico” nella musica contemporanea e riconducendolo a tre generi: il “pittoresco”, l'”esoterico” e il “puramente sonoro” (Boulez 1981; trad. it. 1984, p. 148).
[7] Le petit, Pauvert, Parigi 1963