La memoria di Dante | prof. Francesco Bausi

La memoria di Dante | prof. Francesco Bausi

Presentiamo on-line il discorso della conferenza tenuta dal prof. Francesco Bausi, professore ordinario di Filologia Italiana e Letteratura Italiana Medievale presso l’Università della Calabria,  il 25 aprile 2015 nella saletta teatro “Eunoè” di Fiumefreddo Bruzio. L’incontro faceva parte della “Giornata della Poesia”, curata da Andrea Napoli per conto dell’associazione Eunoè di Fiumefreddo e dedicata a Dante Alighieri  in occasione dei 750 anni dalla nascita. Il Nucleo Kubla Khan, insieme all’associazione “La Masnada” di Catanzaro, ha partecipato alla manifestazione con un reading originale che ritrattava in chiave moderna i sette peccati capitali.
Il discorso del prof. Bausi è stato risistemato per il nostro blog, ma si tratta sostanzialmente di uno schema più che di un testo articolato vero e proprio, utile comunque a comprenderne la materia.

 

LA MEMORIA DI DANTE

(Fiumefreddo, 25 aprile 2015)

La conferenza prende in esame i tre sensi in cui può essere intesa “la memoria di Dante”: memoria di Dante uomo, poeta e letterato, quale strumento primario della conoscenza e della scrittura (genitivo soggettivo); oppure di Dante come genitivo oggettivo: memoria che Dante richiede al lettore per orientarsi nel suo poema e per interpretarlo correttamente; e la memoria dell’opera dantesca nella letteratura dei secoli successivi. Quest’ultimo aspetto sarà illustrato attraverso un esempio particolare: quello del romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo, dove il ‘ricordo’ di Dante è uno dei mezzi che permettono a Levi di difendere e riaffermare la sua identità di uomo nella barbarie del campo di sterminio.

  1. Nel Trattatello in laude di Dante, Giovanni Boccaccio rende testimonianza della grande memoria dantesca:

Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione de quodlibet che nelle scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrarii. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu reputata.

 Alla memoria di Dante, nel Trattatello, è dedicato più spazio che al suo ingegno; e la stessa cosa fa Boccaccio nella biografia del Petrarca:

Memoria vero illum divinum potius quam humanum autumo esse reputandum: nam ab ipsa prothoplasti creatione primeva usque ad hodiernum, quicquid et per quoscumque reges, principes, populos seu gentes et ubicumque actum sit, tamquam sibi presentia cognovisse ac memorasse demonstrat. Phylosophorum vero doctrinas morales, naturales atque theologas ut sumpserit teneatque ipsius gesta, verba, scriptaque iam pandunt.

Oggi nessuno, dovendo scrivere l’elogio di uno scrittore e tanto meno di un poeta, si soffermerebbe sulla sua memoria. Ma ai tempi di Dante, Petrarca e Boccaccio non era così. Nel V canto del Paradiso, prima di esporre a Dante la dottrina cristiana del voto, Virgilio pronuncia queste parole (vv. 40-42):

Apri la mente a quel ch’io ti paleso

e fermalvi entro; ché non fa scïenza,

sanza lo ritenere, avere inteso.

Intendere, capire, non basta per ‘fare scienza’, cioè per acquisire la conoscenza; è necessario ritenere, cioè trattenere, fermare nella mente (memoria) cioè che si è compreso.

I due momenti della conoscenza: intendere – memorizzare.Vd. nel passo ora citato della vita di Petrarca scritta da Boccaccio: “cognovisse ac memorasseut sumpserit [‘afferrare’, ‘capire’] teneatque”. [“intendere” e “ritenere” di Dante]

Per l’uomo del Medioevo, ma si potrebbe dire in generale: per l’uomo premoderno, e in generale per l’uomo pre-digitale, la memoria era strumento base della conoscenza e della vita: in assenza di mezzi di comunicazione e trasmissione del sapere, di memorie artificiali, di biblioteche pubbliche, e all’epoca di Dante anche in assenza della stampa (e in condizioni in cui era difficile il reperimento di libri manoscritti) la memoria è la facoltà senza la quale, appunto, a nulla serve capire, perché il sapere deve essere poi ‘ritenuto’ nell’archivio o libro della memoria. Senza memoria non c’è conoscenza, e dunque non c’è poesia e non c’è letteratura, perché poesia e letteratura sono innanzitutto, nel Medioevo, forme del sapere (non semplici espressioni della sensibilità individuale), non diversamente dalla filosofia o dalla storia, e dunque richiedono allo scrittore, in primo luogo, il possesso di una grande quantità di informazioni, nozioni, conoscenze. E tale possesso era affidato innanzitutto alla memoria. Non per nulla la madre delle Muse è per i Greci Mnemosyne, la dea Memoria, che partorì le Muse con Zeus. Le arti sono figlie della memoria, soprattutto, com’è ovvio, le arti della parola.Per questo, all’inizio della Commedia, nel II dell’Inferno, Dante invoca insieme le Muse e la memoria (vv. 3-9):

                                   […] e io sol uno

m’apparecchiava a sostener la guerra

sì del cammino e sì de la pietate,

che ritrarrà la mente [memoria] che non erra.

   O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate;

o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,

qui si parrà la tua nobilitate.

E secondo la tradizione, non a caso, fu un poeta a inventare l’arte della memoria (o mnemotecnica), il greco Simonide di Ceo, come racconta Cicerone nel De oratore. Ed è noto che nel segno della memoria Dante inaugura la sua attività letteraria: la sua prima opera organica e da lui divulgata, la Vita nova, recita all’inizio:

In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere,si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

Stessa immagine nella canzone E’ m’incresce di me sì duramente (Rime, XIX, testo beatriciano non incluso però nella Vita nova), dove Dante risale addirittura ai primi mesi della sua vita, al momento della nascita di Beatrice e dell’effetto che tale evento provocò su di lui, una specie di ‘folgorazione’ o di attacco epilettico, segnodella predestinazione di Dante all’amore per lei:

Lo giorno che costei nel mondo venne,

secondo che si trova

nel libro della mente [memoria] che vien meno, [perché i ricordi puerili sono evanescenti, sfuocati]

ecc.

Dove la metafora antica e topica della memoria come ‘libro’ presenta anche una valenza letterale e letteraria: in un mondo in cui il libro vero e proprio (in carta o pergamena) è bene raro, il suo sostituto naturale, a tutti disponibile purché lo si sappia coltivare e utilizzare, è la memoria, intesa come libro che conserva l’esperienza (della vita) e la conoscenza (di ciò che si è appreso leggendo o ascoltando). Ugo di San Vittore, teologo francese del XII secolo, scriveva che la memoria è come un libro, e ciò che ricordiamo è come se lo scrivessimo in un libro, perché quello che tratteniamo grazie alla memoria non si cancella (“quod in mente per memoriam retentum non deletur”). Pier delle Vigne – il cancelliere di Federico II, protagonista del canto XIII dell’Inferno – scrive “in tenaci memoriae libro”, nel libro tenace (e tenace viene da ‘tenere’, tenacequi è ciò che trattiene; anche Petrarca, Canzoniere, son. 161, v. 2, parla di «tenace memoria») della memoria. E davvero prodigiosa doveva essere la memoria dantesca: la Commedia fu scritta tutta negli anni dell’esilio, da un uomo costretto, soprattutto nei primi tempi, a vagare senza sosta, in condizioni di grande disagio e povertà, da lui stesso descritte nel primo trattato del Convivio:

Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! chè nè altri contra me avria fallato, nè io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forsechè per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

In queste condizioni, difficile dovette essere per Dante procurarsi i libri necessari per comporre il suo poema, e ancor più difficile possederli e portarli con sé nei suoi spostamenti. Scrive Giorgio Petrocchi, il maggior biografo del poeta:

La biblioteca dell’Alighieri non fu certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all’altro. Tuttavia si può opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un’epitome (magari una sola) storica e geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di Guido Faba.

Eppure la Commedia non solo denota una cultura enciclopedica, capace di spaziare in tutte le branche del sapere (letteratura, storia, filosofia, scienze della natura, teologia, diritto), ma anche una prodigiosa memoria ‘intertestuale’, ossia la capacità di citare, spesso alla lettera, passi della più diversa provenienza, di poeti, storici, filosofi, scienziati. Autori e testi evidentementi imparati e tesaurizzati nella memoria: e non solo la Bibbia o l’Eneide (le cui citazioni abbondano soprattutto nei primi canti dell’Inferno: nel canto XX, Dante afferma di sapere l’Eneide «tutta quanta» a memoria), ma anche testi di altro genere, in prosa, come ad esempio, le storie di Paolo Orosio o il De consolatione philosophiae di Boezio. Dal quale Dante, fra l’altro, ricava una citazione relativa proprio al tema della memoria (Inf. V, parla Francesca: vv. 121-23):

Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

(cfr. Boezio,De consolationephlosophiae, libro II: «in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem»).

[vorrebbe aver perso la memoria, Francesca, ma la memoria di ciò che hanno fatto nella vita è parte integrante della pena dei dannati, e motivo grande, per loro, di tormento: non a caso, solo dopo aver sparso dure lacrime di pentimento riguardo ai propri errori, Dante otterrà da Beatrice il permesso di bagnarsi nel Lete e di bere la sua acqua – e il Lete è il fiume del paradiso terrestre che lava la memoria del male commesso: Purg. XXX-XXXI]

Unico soccorso e sussidio alla memoria erano all’epoca sua le compilazioni, così diffuse nel Medioevo (florilegi, summae, compendi, specula), di cui Dante mostra in effetti di fare uso (dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia alle Derivationes di Uguccione da Pisa): ma simili testi certo non potevano bastare a fornire all’Alighieri i mattoni con cui edificare il grandioso edificio della Commedia. La Commedia è frutto di decenni di studio (Par. XXV, 1-3: «il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro»), ma senza la sua prodigiosa memoria, Dante non avrebbe potuto scrivere il suo poema nel modo in cui lo ha scritto: con quella perfetta architettura, quella rispondenza fra le varie parti, quelle riprese tematiche e verbali a distanza, quella calibratissima alternanza di ripetizione e variazione.

  1. Questa memoria, necessaria al poeta, è necessaria anche al lettore: Dante la richiede, perché senza la memoria il lettore non può comprendere l’opera e coglierne le più profonde sfumature; e non può apprezzare lo sforzo artistico del poeta, la sua maestria, la sua dottrina (Petrarca scrisse in una sua epistola: non voglio che senza faticail lettore apprenda ciò che senza fatica non ho scritto).

Rapporto ‘agonistico’ fra autore e lettore; sfida. Al lettore si chiede innanzitutto di decifrare le allusioni disseminate nel testo. Ad es. Inferno XIII: episodio di Pier delle Vigne: Dante spezza un ramo di uno degli alberi secchi e nodosi che formano la selva dei suicidi, e dalla «scheggia rotta» escono insieme parole e sangue. Episodio modellato su quello dell’Eneide (libro III) in cui Enea, giunto sul luogo dove era sepolto Polidoro (il figlio di Priamo ucciso dal cognato Polinestore) coglie alcuni rami dai mirti cresciuti sulla sua tomba, e dagli arbusti spezzati esce sangue, mentre dal sepolcro si odono parole di lamento. Ebbene, se il lettore compie il ‘riconoscimento’, la ‘agnizione’ – come il poeta richiede – consegue questi risultati:

  • la soddisfazione di aver individuato la fonte, il modello su cui il poeta ha costruito quell’episodio: la soddisfazione di aver vinto la sfida lanciata dal poeta al lettore, mostrandosi e rivelandosi alla sua altezza;
  • una migliore intelligenza del testo, perché la fonte, il modello, conferisce al testo un surplus di senso;
  • il piacere estetico derivante dal comprendere i meccanismi della creazione poetica, cogliendo il dialogo intertestuale instaurato dallo scrittore col suo modello, e verificando in che cosa l’imitazione si attiene fedelmente al modello, in che cosa se ne discosta.

Perché ciò accada, è necessario che la ‘citazione’ sia allusiva, sì, ma visibile, in modo che emerga la bravura del poeta, capace di essere al tempo stesso, nei confronti del suo modello, fedele e originale, rispettoso e innovatore. La citazione, insomma, deve essere abbastanza visibile da poter innescare la ‘memoria’ del lettore, e questa produce da un lato in lui un maggior piacere nella lettura e una migliore comprensione del testo, e dall’altro un più pieno riconoscimento dei meriti dell’autore, di cui il lettore riconosce la cultura e l’arte, cioè la capacità di competere coi modelli dei poeti precedenti (in questo caso, la capacità di Dante di gareggiare da pari a pari con quello che per lui era il massimo poeta antico, Virgilio, magari talora anche superandolo). Ma la memoria di Dante che Dante richiede al suo lettore è anche di un altro genere, soprattutto nella Commedia: tenere a mente l’intero poema, non dimenticarne alcun dettaglio, saper stabilire collegamenti a distanza, perché il poema è un organismo coerente e compatto, minuziosamente costruito, e quindi ogni parte dell’opera è illuminata dalle altre.

Esempio. Il V canto dell’Inferno: la corretta interpretazione dell’episodio di Paolo e Francesca è possibile solo quando il lettore arriva a leggere i canti XV-XVIII e XXVI del Purgatorio: quando cioè si chiarisce quali sono le reali colpe dei due amanti: aver rinunciato a esercitare il libero arbitrio, credendo che ogni amore sia di per sé buono e che l’amore sia una forza superiore all’uomo, determinata da influssi astrali e impulsi psicologici non controllabili; e aver scambiato la letteratura con la vita, facendosi guidare dai versi d’amore dei poeti provenzali e stilnovisti, che, se presi alla lettera, conducono alla lussuria e alla morte. Al lettore è dunque richiesto, quando arriva a questi canti cruciali del Purgatorio, di avere memoria del remoto V canto dell’Inferno, perché solo ora l’episodio di Paolo e Francesca – forse il più importante del poema, e non a caso si tratta dei primi due personaggi con cui Dante dialoga, rimanendone così impressionato da perdere i sensi, alla fine, e cadere «come corpo morto» – riceve le sue corrette chiavi di lettura e può essere adeguatamente interpretato.

Ciò accade di frequente nella Commedia: spesso ci imbattiamo in situazioni e affermazioni che trovano la loro chiarificazione più avanti, magari molti canti dopo, a grande distanza. Così nel poema fa anche Dante-personaggio: quando di fronte alle oscure parole profetiche che di volta in volta gli accade di ascoltare, evita di chiedere spiegazioni immediate, preferendo – come afferma nel suo dialogo con Brunetto Latini, Inferno XV – limitarsi a scriverle e a serbarle «a chiosar con altro testo» (vv. 88-90):

Ciò che narrate di mio corso, scrivo,

e serbolo a chiosar con altro testo

a donna che saprà, s’a lei arrivo.

Cioè si limita, per il momento a serbare, conservare nella memoria le oscure parole di Brunetto, in attesa che altre e successive profezie lo aiutino a decifrare almeno in qualche misura le precedenti. Memoria è dunque anche pazienza: come se la memoria fosse una sorta di magazzino in cui riporre degli attrezzi che un domani potrebbero essere utili e che dunque è opportuno avere sempre in pronto. I tempi della memoria sono tempi lunghi, come lo sono quelli della lettura e dello studio, come lo sono quelli della storia.

Il lettore della Commedia deve avere, insomma, la stessa ‘memoria’ di Dante, quella con cui Dante ha costruito la mirabile architettura del suo poema: per collegare tra loro le sue varie parti, per interpretare, a ritroso, ciò che ha letto prima. E a questo scopo Dante ha inventato un congegno formidabile per aiutare il suo lettore: la forma metrica della terzina, che con la catena di rime svolge una precisa ed efficace funzione mnemonica, facilitando lo sforzo di imprimere i versi nella memoria. Perché per capire la Commedia bisogna tenerla sempre tutta presente alla mente: bisognerebbe saperla tutta a memoria. Per capire davvero la Commedia bisognerebbe avere la cultura e la memoria di Dante stesso.

  1. La memoria di Dante negli scrittori dei secoli successivi. Tema scontato e vastissimo. Non c’è poeta e scrittore, quasi, che nella cultura occidentale (e anche al di fuori di essa) non abbia fatto i conti con Dante e con la memoria – anche solo scolastica, magari – delle sue opere.

Caso particolare:Primo Levi,Se questo è un uomo 1947 (1958 II ed.), dove la memoria della Commedia non è solo un fatto letterario, perché questa memoria è elemento costitutivo del romanzo, in quanto è ciò che ha permesso a Levi prima di scampare al lager, poi di raccontarlo e, dunque, di capirlo.

Intelaiatura dantesca del romanzo: la Commedia è il filo rosso del romanzo. Dante serve a Levi a capire Auschwitz, e al tempo stesso serve ai lettori a immaginare l’inimmaginabile. Appena arriva al campo, Levi dice: «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così». Quando arriva al lager, l’unica realtà che gli viene in mente, che gli sembra assomigliare a ciò che vede e vive, che gli può prestare parole per descrivere l’indescrivibile, è un mondo di cui ha letto nei libri: l’inferno dantesco.

Le citazioni esplicite o implicite sono spie e guide per il lettore, e abbondano non a caso soprattutto all’inizio. Alcune furono aggiunte nella seconda edizione, e ciò dimostra la precisa volontà di Levi di imprimere il suggello dantesco e ‘infernale’ alla vicenda che ha vissuto e che racconta.

All’arrivo, Levi paragona la sua situazione suia e degli altri prigionieri a quella degli ignavi dell’antinferno (anch’essi, infatti, nudi e umiliati, sono costretti a correre e a muoversi senza ragione) e degli abitatori del limbo (con i quali condividono uno stato di attesa e di sospensione). E inoltre:

  • il camion che porta i deportati al campo è la barca di Caronte.
  • Levi ode confusione di lingue, grida, pianto: ciò che Dante sente all’entrata dell’Inferno. ( III 25-27: «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle»).
  • Levi parla di contrappasso e usa spesso termini danteschi (i diavoli di Malebolge, ad es., sono le guardie del campo)
  • un capitolo del romanzo si intitola I sommersi e i salvati (doveva essere il titolo originale dell’opera, diventerà poi il titolo dell’ultimo libro di Levi, edito nel 1986, e sempre dedicato ai campi di sterminio e all’olocausto): i «sommersi» sono per Dante i ‘dannati’ ( XX, 3).
  • il dott. Pannwitz che fa a Levi l’esame di chimica in fabbrica «siede formidabilmente dietro una complicata scrivania» (come una sorta di nuovo Minosse: Inf. V, 4: «Stavvi Minos orribilmente e ringhia»: il giudice infernale). E il laboratorio della fabbrica è un «paradiso» (e in effetti è luogo di salvezza per Levi, che dovette la vita alla sua laurea in chimica).
  • l’ultima parte del romanzo (il capitolo intitolato Storia di dieci giorni) ricorda la parte finale dell’Inferno: siamo in pieno inverno, il terreno è coperto di ghiaccio, come nel fondo dell’Inferno, la ghiaccia di Cocito, dove sono conficcati i traditori (IX cerchio, canti 31-34).

Capitolo centrale: Il canto di Ulisse. Levi spiega e traduce in francese (alcuni versi) a un giovane compagno di prigionia il XXVI dell’Inferno e l’intera Commedia, nel corso di un’ora in cui i due si recano alle cucine per prendere il rancio. Il cuore sono ovviamente i versi centrali: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguire virtute e canoscenza»). Dopo che li ha recitati e tradotti, Levi scrive: «Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono».Fin dall’inizio, quei versi costituiscono il leitmotiv del romanzo, come dimostra la poesia che Levi ha collocato in epigrafe al romanzo:

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici

considerate se questo è un uomo

ecc. (Inf. 26: «Considerate la vostra semenza», ecc.).

Levi era laureato in chimica, ma con solidi studi liceali, fatti in un’epoca in cui a scuola si imparavano a memoria interi canti del poema: e questa memoria lo ha salvato, lo ha fatto rimanere uomo, gli ha permesso di conservare la coscienza della propria razionalità («virtute e canoscenza»), sottraendolo all’abbruttimento e alla perdita dell’individualità cui i nazisti condannavano i prigionieri; e la memoria di Dante, inoltre, gli ha fatto intuire il perché del tragico destino suo e del suo popolo. Ulisse infatti è per Levi il popolo ebraico, perseguitato da Dio («come altrui piacque», dice Ulisse alla fine del canto XXVI riferendosi al naufragio della sua nave, quando Dio decreta la morte sua e dei suoi compagni) per espiazione della colpa di aver crocifisso Cristo; e come molti degli ebrei, compreso lo stesso Levi, anche Ulisse è un sapiente, un uomo di ingegno (si rammenti che fra el radici dell’antisemitismo vi è il timore per l’acutezza intellettuale e l’astuzia [Ulisse] del popolo ebraico).

Quel capitolo centrale (Il canto di Ulisse) mette in scena la lotta disperata di Primo Levi con la propria lacunosa memoria: vorrebbe ricordare tutto il canto XXVI, invece gliene tornano a mente solo pochi frammenti, che non riesce a saldare tra loro («Mi danzano per il capo altri versi»). Frammenti salvati dall’oblio (e il verbo salvare in questo contesto è significativo: I sommersi e i salvati), ma frammenti non casuali: Levi ricorda, e cita al compagno di prigionia, i versi più significativi dell’episodio, quelli il cui significato gli sembra alludere alla propria condizione, e illuminarla.

Ad es., dopo aver ricordato il v. 90 (dove Ulisse «mise fuori la voce, e disse “quando”», Levi commento: «E dopo “quando”? Il nulla. Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea la nominasse” [v. 93]. Altro buco, Viene a galla qualche frammento non utilizzabile». E dopo: «“Mare aperto” [v. 100: «ma misi me per l’alto mare aperto»]. So che rima con “diserto”, “quella compagna / picciola da la quale non fui diserto” [vv. 100-101], ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: “Acciò che l’uom più oltre non si metta” [v. 109]». E oltre, dopo aver citato i vv. 133-35 («quando mi apparve una montagna, bruna / per la distanza, e parvemi alta tanto / che mai veduta non ne avevo alcuna»), leggiamo una frase oltremodo significativa: «Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, [funzione mnemonica della rima e del meccanismo della terzina: vd. sopra] chiudo gli occhi. mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio» (parole conclusive, queste ultime, dell’Amleto).

La memoria di Dante è vitale, dunque, più del rancio quotidiano, senza il quale il prigioniero può morire. Donde lo sforzo quasi sovrumano di recupero memoriale, fatica fisica, dolore: per recuperare la parola che salva, che rompe il silenzio, che è segno di razionalità e dunque di vita, antidoto contro la morte incombente. La memoria, e la memoria di Dante in particolare, ha salvato Primo Levi.

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Donato all’Associazione Eunoè di Fiumefreddo Bruzio dall’artista cosentino Marco Manfredi

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