L’Ultima Estate

L’Ultima Estate

Leggere fa male, dovrebbero scriverlo su ogni pagina stampata, come fanno sui pacchetti di sigarette, nel senso che leggere uccide le illusioni e, se le condizioni ambientali sono avverse, non lesina neanche prosaici insulti fisici.

Come ogni giorno sono giunto al solito angolo della strada e, sbuffando e ansimando, mi sono procurato il solito giornale dal solito edicolante di sempre. Farlo con questo caldo asfissiante pare un atto eroico o forse un’autentica follia. Magari questa non-differenza vale in ogni situazione e battezzare le medesime azioni in un modo o nell’altro riguarda solo la benevolenza di chi narra l’accadimento.

La finestrella dell’edicola si apre e un getto di climatizzatore mi anserina il dorso della mano. Appena dal pertugio fuoriesce il fascio di fogli acquistato, il vetro scatta con una risolutezza gliottinesca per arginare la falla che riversa ferinamente la calura all’interno.

Leggo il giornale cartaceo grossomodo da quando una simile pratica era il modo di informarsi più comune e non il più esotico. Ora è un gesto che sa di antico, che puzza di estinzione. Magari mi assalgono questi pensieri perché sono l’unico essere umano che arranca per strada. Che sfida l’asfalto rovente, il cemento cocente e l’aria torrida mettendo un passo dietro l’altro, alla vecchia maniera. Per me è un rito fare questo, farlo a quest’ora e senza beneficiare di alcun ausilio artificiale. I riti sono sacri o, almeno, dovrebbero esserlo.

Credo di non aver mai buttato un giornale. Dopo averli letti li ho sempre impilati in casa, sino al soffitto. Ordinatamente. Basta dire una data e indicherò la posizione precisa del giornale corrispondente a quella data in pochi secondi. Ho metodo. Ho memoria.

Da anni in questo periodo, sul giornale, scrivono sempre “l’estate più calda di sempre”.

Ho messo dieci numeri, quello di oggi e dei nove anni precedenti venduti nello stesso mese e nello stesso giorno, sul tavolo della cucina.

“L’estate più calda di sempre” è un titolo che campeggia su ognuno di loro.

È un’assenza di cambiamento che però muta il paradigma.

Vorrei potermi illudere che a un certo punto la faccenda virerà all’indietro però leggo troppo per poterlo fare.  Allora, come premio di consolazione, vorrei almeno saper affrontare con la necessaria impassibilità ciò che accade, vorrei cioè, quantomeno, poter confidare nella provvidenza. Essere un credente.

Vorrei esserlo ma non lo sono. Punto.

Non è una scelta. È un fatto. Sono stato scippato di qualcosa.
Quando dicono “credo” provo un sussulto interiore che dovrebbe avere un nome tutto suo, tipo la saudade, lo schadenfreude, lo shikata ga nai. Lo merita. È forte. È intenso. È una miscela precisa di due distinti ingredienti nelle giuste proporzioni.

Disgusto.

Solo chi ha un’arachide al posto del cervello può credere che ci sia qualcuno a tirare i fili di questa brodaglia entropica che chiamiamo vita. Verso chi è tanto stolto il disgusto è naturale, anzi, di più, è dovuto.

Invidia.

Se non hai un burattinaio in cui credere e con cui prendertela, se non hai un indirizzo da vergare sulla busta che raccoglie maledizioni e benedizioni, allora te la passi male. Alcune cose rimangono lì, ingorgate nel profondo, e producono un senso di sofferenza come durante una sommovimento intestinale a cui non puoi dare sfogo. Le bestemmie sono atti d’amore succulenti da consumare con eccitazione e rabbia. Reprimerle fa male. In chi crede, nulla di immondo e puzzolente si agita dentro senza trovare l’uscita. Un credente ha interiora lucide e sgombre. Come nettate con lo sgorgante. Non c’è nessun intoppo nel suo intimo. Lui sa a chi indirizzare le sue preghiere e soprattutto le sue maledizioni. Vive meglio, anche questo è un fatto.

Forse, prima o poi, riuscirò a credere. Per ottenerne i vantaggi, ovvio, ma anche perché in effetti un’impronta divina, un’orma sospetta, la intravedo pure io in questa pantomima cosmica. Quando ci penso alla fine un po’ di dubbi mi assalgono. È l’ironia del tutto. Ecco la pistola fumante. Deve esserci qualcosa di metafisico nel sotteso senso di scherno che evidentemente regola il tutto. Accadono cose troppo stravaganti e crudeli per essere completamente casuali. E allora, forse, mi dico, dio magari c’è. Anche se io al momento non riesco a crederlo. Un bambinone smisurato che si diverte a punzecchiare noi formichine con un ramoscello grosso quanto la Via Lattea. Forse è fatto così. O almeno io così me lo immagino. Se esiste, se ci ho preso, dobbiamo solo sperare che non scopra quanto potrebbe divertirsi, ancor di più, con quelle stesse formichine, una lente d’ingrandimento, uno dei suoi astri e la sadica perversione che già segna ogni suo eventuale atto. Ma, se esiste, lo scoprirà. O forse lo ha già scoperto.

Forse sta già soppesando la lente fra le sue onnipotenti mani e con i suoi onniveggenti occhi sta scegliendo la prima formichina da friggere.

Che sia questo il motivo per cui fuori dalla mia finestra oggi c’è tutta questa insopportabile, abbagliante luce?

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