Un bambino pisciato profuma, un vecchio lavato puzza.
Lo pensavano tutti che il vecchio puzzava, specialmente i suoi figli, anche se non glielo dicevano mai. Quando li vedeva, poteva leggerglielo in faccia. Non perché fumasse il sigaro, del resto anche loro erano fumatori, benché di Marlboro; neanche per il forte odore di canfora degli unguenti che usava per l’artrosi. La verità è che ciò che puzzava a tutti era la vecchiaia, che altro?, e la puzza della vecchiaia passa non dal naso, ma dagli occhi.
Per questo si lavava tante volte al giorno, fino a perdere il conto. Per questo aveva la pelle così bianca, più bianca di quella dei vecchi; che, si sa, tutto si schiarisce in un vecchio: dai peli alla pelle, agli occhi, che col tempo diventano sempre più chiari, e se non si fanno completamente bianchi è perché si muore prima.
Pure le migliori pelli finivano con l’imbiancarsi, lo sapevano sia lui che i suoi figli: la concia impedisce la putrefazione ma il cuoio, anche quello più scuro, si incanutisce, come se le bestie morte continuassero a invecchiare, mute, intrappolate nel rivestimento di una borsa o di un paio di guanti.
Il vecchio aveva i vestiti consunti, è vero, ma erano sempre puliti. Ancora se la sentiva di lavarseli da solo. E si metteva sempre la brillantina Linetti: i capelli se ne stavano belli ordinati, dritti, sembravano tirati a uno a uno.
Il vecchio sputacchiava un po’ di cenere ogni tanto, pure questo è vero, perché dai tempi della guerra fumava il sigaro con la parte accesa in bocca; non era un gesto elegante, ma la cenere è pulita, frutto della purificazione del fuoco vivo sulla materia; è eterna, non può marcire e quindi neppure puzzare. Nel ’43, con la sua divisione, aveva dato fuoco a un villaggio in Montenegro e nessuno meglio di lui sapeva che il fuoco non guarda in faccia nessuno, perché anche due dei suoi compagni erano finiti carbonizzati. I morti, negli anni a venire, erano stati discreti, si erano trasformati nella materia più pura e pulita che esista, la cenere, santa, incorruttibile come l’oro, e che vale ancora di più perché è capace di nettare i vestiti sporchi di sangue. Gli capitava di pensare a sua madre che la usava per fare il bucato. Magari qualche granello apparteneva a un morto di altre guerre, di altre distruzioni, e il bucato veniva fuori pulitissimo — la pulizia del perdono —, con un profumo che poi, con l’avvento dei detersivi e dei saponi dei supermercati, tutti avrebbero dimenticato. Non gli piaceva lavarsi con quella robaccia sintetica, specie la faccia: non per la sensazione sulla pelle, o per il bruciore agli occhi, ma perché il bianchiccio della schiuma industriale si aggiungeva al pallore di corpo, capelli e sopracciglia, e diventava un tutt’uno come l’albume quando lo monti in una scodella. Per questo il vecchio era così bianco: non c’era più neanche un pigmento, se n’erano andati tutti giù per il lavandino.
Ma era quell’immenso fuoco che gli compariva spesso nel buio della mente a turbarlo davvero. E nello stesso tempo a ipnotizzarlo. Lo osservava a occhi chiusi davanti alla televisione, col sigaro acceso al contrario. Era così che si fumava in trincea: che fossero sigarette o sigari, si doveva tenere la punta accesa in bocca, altrimenti il colpo di un cecchino in fronte era assicurato.
Goditelo ‘sto cazzo di sigaro, ché la guerra è finita — gli dicevano sempre i suoi figli —, fumatelo dritto come fanno tutti. Chi ti vuole sparare oggi?, che neanche ti reggi in piedi. C’era bisogno di molto esercizio e controllo per evitare di scottarsi la lingua o di ingoiare la cenere. Ma cosa ne potevano capire loro? Il vecchio aveva ancora la punta della lingua dura, dura come una raspa, a memoria del suo antico addestramento. Ma quel calore era impagabile, gli ricordava che era vivo. Nella sua memoria, tutto era in bianco e nero — pure il fuoco —, ma più bianco che nero, ché i colori scuri erano spariti anche dalla sua testa. Rocco Spato, ex compagno d’armi, qualche anno prima gli aveva detto che i suoi ricordi si erano guastati: non era vero che era tutto bianco e nero: i soldati avevano la pelle color fango, tutto era color fango, ed era difficile capire dove finiva il fango e cominciava un uomo. Le fumate gli facevano venire in mente l’artiglieria, i pezzi di cristiano sparsi in un sugo di terra e sangue, e per contrasto gli ricordava che lui era rimasto intero, che si era salvato. Forse le aveva raccontate troppe volte quelle cose ai suoi figli e non avevano più significato. Aveva perso la speranza: l’unica cosa che era riuscito a insegnargli era come conciare la pelle, e non era stato neanche un maestro troppo bravo: le borse non erano più le stesse di una volta, quelle che faceva lui. I suoi ragazzi lavoravano duro, doveva ammetterlo, ma per soldi, non avevano amore né rispetto per quello che facevano: o tenevano il cuoio troppo a lungo nella calce viva – e veniva duro –, o troppo poco – e restavano residui di pelo. La pelle di un morto ammazzato, che sia un uomo o una vacca, va trattata con rispetto, come gli diceva suo padre.
Quando era piccolo aveva chiesto alla madre dove si va quando si muore. La donna aveva risposto che sarebbe andato in cielo dal Signore come tutti. L’aveva chiesto, poi, anche alla signora del catechismo — non per mancanza di fiducia, ma era meglio raccogliere più pareri —, e anche lei gli aveva confermato che si vola in cielo. Anche tutti gli altri adulti, alla stessa domanda, parlavano del paradiso e del Signore. A quel punto, il bambino aveva chiesto alla nonna se gli uccelli erano già tutti morti visto che stavano in cielo. Le aveva domandato se lei tenesse i canarini in gabbia per mantenerli vivi, per impedirgli di morire. Per una logica analoga pensava che essere grassi fosse una buona strategia perché più si è pesanti più facilmente si sta attaccati alla terra. Questa era l’unica cosa che era riuscito a capire, e non gliel’aveva insegnata nessuno; gli adulti non sembravano aver capito poi molte cose.
I suoi figli erano troppo grandi e un po’ stupidi per afferrare il concetto, ma almeno ai suoi nipoti poteva riuscire a spiegarlo. Se solo Ada, sua nuora, glielo avesse concesso. Appena il vecchio prendeva un nipote sulle ginocchia, Ada glielo strappava con la scusa del pisolino, dei compiti, e altre stupidaggini. E se il bimbo non aveva nulla da obiettare a queste scuse, perché doveva farlo lui?
Ada aveva la pelle rosa, ma lui sapeva che col tempo anche quella sarebbe diventata del colore bianchiccio sbiadito delle persone che puzzano. Una volta, durante uno dei pranzi di famiglia, aveva sentito che lei praticava la fangoterapia. Perché oggi le donne se lo mettono sul corpo, il fango, per diventare più belle. Forse è per questo che i suoi commilitoni, nei ricordi che iniziavano a imbiancare, gli sembravano bellissimi, più di quanto non fossero stati in realtà. Magari sul fronte non se ne era mai accorto perché erano sempre tutti infangati. Ma se questo è vero, se tutti diventano più belli, nessuno si accorge della differenza, allo stesso modo in cui deve esserci almeno una persona viva perché ci si accorga che esiste la morte.
È da tempo che il vecchio ha capito che i bambini sono capaci di una comprensione della morte che per gli adulti è impossibile. Un giorno, dopo uno dei tanti pranzi di famiglia, ne ha avuto la conferma. Alla fine del pasto si era chiuso nella sua camera da letto a piangere davanti alla foto della moglie morta. Ci aveva messo un po’ ad accorgersi che i nipoti lo avevano seguito e lo stavano guardando.
Nonno, non devi nasconderti quando piangi. Guarda che noi lo sappiamo cos’è morire.
Il vecchio si siede sul letto e prende i due nipotini sulle gambe. Non dice nulla. Hanno un buon profumo, è sempre buono il loro odore, anche quando tornano inzaccherati dopo il gioco. Gli chiede di continuare, di raccontargli cosa hanno capito della morte.
C’era un gatto che stava sulla strada, a terra, infangato e spiaccicato. Muoveva solo la coda, faceva così, poi a un certo punto non si è mossa più neanche la coda. Aspettavamo per vedere se il gatto si svegliava ma niente. C’erano troppe cose che gli erano uscite dalla pancia. Però abbiamo pensato che forse, se gliele rimettevamo dentro, magari si rialzava, non so, ma faceva un po’ senso e non abbiamo fatto niente. Comunque, morire è quando un gatto non si muove più.
E allora il nonno chiede se ne hanno parlato con i genitori di queste cose.
No, no, non gli abbiamo detto niente, e neanche tu, nonno, devi dirgli niente. Mamma e papà pensano che i morti vanno in cielo dal Signore e poi ci restano male. Ci sono già troppe cose in cielo: uccelli, navi spaziali, pianeti, le stelle. I gatti non ci entrano.
Il vecchio sorride, si compiace di scoprire che anche loro hanno un’idea propria della morte, né peggiore né migliore di quella degli adulti. Accarezza le loro testoline, poi torna ai suoi pensieri. Quando non ha niente da dire, non resta che un gesto. Gli permette di scaricarsi, di rilassare i muscoli per poi lasciargli prendere la forma della poltrona. Tira fuori un sigaro dal taschino, ne prende le estremità tra le dita di entrambe le mani facendolo ruotare su sé stesso, lentamente, come sul banco di un tornitore, mentre con la lingua ne lecca la pancia, per ammorbidirla, per poterlo ammezzare con le unghie senza rovinarlo, e lo accende. Un paio di boccate, giusto per uniformare la brace. Attende che il calore si affievolisca un poco, poi se lo rimette in bocca, sempre al contrario.
Chiude gli occhi. Il calore del braciere in bocca gli sembra troppo debole, con il fiato riesce a controllarlo, a ravvivarlo quanto basta, senza far cadere la cenere sulla lingua. I suoi compagni d’armi gli saltellano in testa, uno dopo l’altro, gli dicono delle cose, sempre in bianco e nero; c’è tutta una nebbia sonora, e lui non riesce a intendere le parole, ma non ha importanza. Sa che almeno loro non ce l’hanno con lui. Gli fanno compagnia, ci sono sempre tutte le volte che chiude gli occhi, coperti di fango ma sempre profumati.