Si possono trarre molti insegnamenti dagli oggetti. La loro realtà mondana può essere la chiave per sbloccare importanti problemi spirituali. C’è una mistica dell’umile in questo. Esiste qualcosa di più intriso di umiltà che un oggetto da adorare? Ha assunto così tante forme che sembra impossibile che tutte provengano da uno stesso luogo, da una stessa idea. L’adulto che adora la sua automobile e che gli attribuisce un nome non è diverso dal bambino che dà un nome al suo pupazzo. Dare un nome è esercitare una forma di controllo su quello che ci circonda, anche se in una maniera molto tenue. Un’automobile non smette di essere tale solo perché le è stato dato un nome, lo stesso vale per un pupazzo. Non acquisisce di per sé altre qualità. È tutto un atto di spirito, nonostante l’oggetto a volte venga definito come qualcosa che è estraneo allo spirito. L’oggetto battezzato guadagna qualcosa che non aveva, un’identità, che a sua volta è un’estensione dell’identità di chi lo battezza. La perdita o la distruzione di tali oggetti può causare un grande dispiacere e perfino un tremendo dolore. Il modo in cui ci connettiamo all’immaginazione, a tutto quello che proiettiamo intorno, è proiettato a sua volta nel modo in cui ci relazioniamo agli oggetti; in particolare a quelli consacrati a custodi di valore sentimentale. I giochi d’infanzia hanno questo valore in particolare, i loro anni d’oro non sono ancora giunti al termine. Questo valore viene portato avanti nella vita adulta in diversi modi. Si possono tenere i propri oggetti finché non se ne acquisiscono altri che ricordano i primi, i quali iniziano ad essere conservati come reliquie: imballati con mille attenzioni nel caso di eventuali alterazioni di domicilio, puliti con cura, sistemati in un posto speciale, oggetti di devozione. Tra questi, un caso molto specifico: gli oggetti ricevuti da qualcuno che si è amato o che si ama ancora. Esistono pochi oggetti come questi, adorati o distrutti con lo stesso fervore, con la stessa devozione.

A seguire ci sono gli oggetti di lutto, che sono sacri in un altro modo. La cosa santa, toccata da chi si è amato, anche da chi non si è mai conosciuto, come con le reliquie di famiglia. Distruggere uno qualsiasi di questi oggetti è una recisione, un desiderio di alleggerire il peso che si carica. Il bambino trasferisce gli estremi del suo comportamento sul pupazzo: l’ultima dolcezza e la violenza finale. Il bambino è capace di tutto, semplicemente non lo sa. La sua curiosità, come un’entità esterna, lo sa molto bene e lo guida verso tutti i crimini. Il pupazzo media, divide la curiosità e concentra su di sé grande parte di queste stravaganze. Ma serve anche da complice per quei colpi in potenza, che sorgono con l’opportunità. Nel racconto dello scrittore francese Gustave Flaubert, quello in cui si narra la leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere (così come era raccontata nella vetrata della chiesa del suo paese), era stato per curiosità che lo stesso Giuliano, ancora bambino, uccise un topolino nella sacrestia. Non era stato per vedere cosa succedeva? La curiosità è anche un’energia potente. È sufficiente a squarciare il pupazzo per vedere cosa lo rende tale. In parte il bambino crede istintivamente nell’idea dell’anima intesa come principio meccanico, come un’energia che dà vita. Crede anche che quest’ultima possa essere decifrata, che una meticolosa brutalità l’aiuterà a raggiungere il nocciolo delle cose. L’oggetto inteso come complice ma anche come strumento, che si smonta e si rimonta senza esitazione, è il contrario di come il bambino vede il pupazzo. Quest’altra complicità è appena meccanica. Non c’è nessuna meraviglia quando si risolve il problema. Nessun motore, per quanto complesso sia, può dirsi che abbia un’anima. Quello che annoia il bambino, ovvero che non ci sia dell’altro, è ciò che entusiasma l’adulto. Dai collezionisti descritti dall attento Walter Benjamin, creature ostinate e pensierose, con uno sguardo che si illumina solo alla vista di qualche oggetto mancante alla collezione, passando ai cacciatori di Pokémon GO, curvi sui cellulari, alla caccia, concentrati come predatori, al sogno di un vignettista statunitense, non mi ricordo più se Crumb o Clowes, che sogna di trovare nei bidoni della spazzatura di un vicolo quei numeri mancanti alla collezione della Zap Comix, passando per le memorie di Giacomo Casanova, il movente non è completare la collezione, sebbene possa seguirne un’altra, ma mantenere viva la fiamma della caccia. Non a caso molti fanno varie collezioni in simultaneo. La dieta deve essere diversificata, in modo che l’attenzione resti viva. In questa idea di inseguimento, di lotta tra la vita e la morte, risiede l’attaccamento che si ha dell’immagine idealizzata delle aste; quest’idea di dispute fiammeggianti che qualche cinema ha reso popolare, un’esplosione sempre rimandata di adrenalina, di presa imminente, che nessuna realtà può eguagliare. Ma questa idea aiuta a legittimare l’ossessione del collezionista, il suo stato limite, ciò che è capace di fare e fin dove è disposto a spingersi. L’esempio per esagerazione, per superiorità di sensazione e desiderio, il dispositivo fondamentale del teatro greco, ancora è in vigore. Il collezionista e l’accumulatore divergono in un aspetto fondamentale, infatti per quest’ultimo l’enfasi non è nella caccia ma risiede prima, nell’opportunità. Ma così come i collezionisti, anche gli accumulatori sono stati stereotipati, in labirinti con pareti fatte di carta stampata, giornali, riviste, quaderni, in sale intransitabili: Questo è il terreno dei malati della psiche e degli assassini e così sono stati rappresentati da qualche cinema. Ma in verità non sono così diversi da quel parente che acquista stoviglie e la mobilia dove riporle così da dimezzare lo spazio in casa, la cui sala da pranzo deve essere montata e smontata, creando ostacoli che la famiglia trova buffi. Divergono nella forma ma non nell’essenza. Sono incapaci di resistere. Il fascino per gli oggetti non prende in considerazione lo spazio che andranno a occupare. Chi non si è mai innamorato di una cosa che ha trovato ma della quale non ne ha bisogno? Un anello in argento, una mappa incorniciata, un mazzo di fotografie, una sedia, dei libri, qualunque cosa che possa incantare. È lo stesso per chi compra per impulso o per conforto, persino per noia. Si prende pure la scatola delle scarpe nuove, piccole cose come questa. Anche chi compra libri, li legge e li conserva, serve da esempio. Si situa in un punto intermedio perché, sebbene si possano sempre acquistare più scaffali, l’oggetto di per sé oggi è in gran parte inutile. In cosa è diverso da un paio di scarpe usate solo una volta e che non si useranno più? Questo non svaluta l’oggetto o la sua utilità per altri. Può essere donato o venduto, come si è sempre fatto. Ma gli oggetti sono in grado di acquisire una rilevanza che non si sospettava, una tenacia. È quasi sempre immaginaria e non gli appartiene ma gli viene attribuita. In gran parte viene dal passato, dalla nostalgia, ma può anche venire dal futuro, dal credere nell’opportunità di tornare ancora utile. L’oggetto possiede l’audacia di vivere in questo limbo, dov’è simultaneamente utile e inutile. Al contrario del collezionista e dell’accumulatore, il feticista non è autosufficiente, gli oggetti che ha non gli bastano. Richiedono la presenza di un altro, cosa da cui gli altri sono esenti. Non c’è creatura più sfortunata sulla faccia della terra che il feticista che sospira per una scarpa da donna ma che deve accontentarsi di una donna intera, dall’aforisma del bellicoso austriaco Karl Kraus. Qualche cinema, come quello dello spagnolo Luis Buñuel, mostra bene gli inconvenienti del problema. Gli oggetti che il feticista acquista, usa e conserva hanno come proposito quello di essere usati più di una volta. Il collezionare e l’accumulare hanno un’altra sacralità che qui non esiste, nonostante resti sempre qualcosa di sacro negli oggetti. Le mani a cui si destinano le collezioni sono simili alle mani che sanno operare il sistema dell’accumulazione, è qualcosa di intrasmissibile. Sono custodi dell’idea dell’ordine e, come loro, il feticista esercita la sua forma di autorità, preserva il suo ordine. Ci sono rituali da compiere, atti di adorazione da portare a termine. L’uso è essenziale. A cosa servono le reliquie se nessuno se ne meraviglia? L’oggetto adorato, il pezzo di azulejo o il cervo di plastica, quei frammenti che riempiamo di vita, che nutriamo e preferiamo a tutti gli altri, quella chincaglieria, le scarpe nuove, un libro raro, una stampa trovata per strada, tutto si può convertire in amuleto, in un feticcio, qualcosa dove poter riporre un po’ di fede. Ma si può riporre molto altro, oltre alla fede, in un oggetto. Il greco Platone, riferendosi alla scrittura e all’abitudine di affidare parole alla carta, predisse il deterioramento che l’uso di questo strumento avrebbe causato alla memoria. L’oggetto diventa depositario, un confidente. Qualcosa si sfalda nella memoria, Platone aveva ragione. Questa decadenza fa sì che la mente si organizzi in un altro modo ma qualcosa va perduto e si possono anche perdere gli oggetti nei quali si era riposto ciò che non si vuole ricordare, in un incendio o per negligenza. Perdere è umano. Si perdono denti, capelli, freschezza, amori, accendini, quaderni, membra e facoltà. Si può, in casi estremi, perdere l’identità, la capacità di comunicare. Nemmeno l’imparare a scrivere può salvare, si dimenticano con facilità le cose più elementari. L’ironia non sta nel rifiuto dell’oggetto, è l’incapacità dell’artefice di usare il suo strumento. L’oggetto, sebbene di invenzione umana, usa un fascino che lo distingue ed eleva. È come un dio, una pura invenzione degli uomini. Gli si attribuisce qualsiasi caratteristica si desideri, qualunque enigma è di ordine divino, tutte le difficoltà sono crisi di fede. L’idolatria, la sua controparte, l’iconoclastia, attestano questo particolare fascino che gli oggetti esercitano. Il cellulare, che finisce per concretizzare la previsione platonica attraverso mezzi che costui non poteva sospettare, è un oggetto la cui sacralizzazione si è concretizzata attraverso l’uso e senza nessun stupore, è un sostituto della memoria, molto più efficace di qualunque scritto. Un oggetto a cui si chiede consiglio, che misura il battito cardiaco e il numero di passi fatti in un giorno, che guida, che immagazzina tutto ciò che si ritiene rilevante, che si sostituisce a tanti altri oggetti: l’agenda, la macchina fotografica, il telefono, la mappa, il blocco degli appunti, etc. Il cellulare trascende la sua funzione iniziale e inaugura l’era della protesi non medica, quella che si ammette per ragioni civilizzatrici, per progresso. Del progresso e del modo in cui tenta sempre di obliterare il passato, di sostituirlo in modo assoluto, ne hanno parlato molti altri meglio di come potrei fare io . L’immagine più popolare di questa lotta impari è quella concepita dal tedesco Walter Benjamin a partire da una tela del suo compatriota Paul Klee, quella dell’angelo che viene spinto nel futuro da una tempesta chiamata Progresso e che cerca, con tutte le forze, di raccogliere qualsiasi vestigio su cui possa mettere la mani, una collezione senza criterio, fatta di opportunità, destinata a essere usata e studiata ma composta da vestigi senza un legame apparente, ermetica come la logica dell’accumulazione, inferta più che dedotta. Non è pure così la nostra collezione di oggetti, più in vista o più nascosti? Dalla vetrina dove si espone con orgoglio una collezione,  alle pile disordinate designate a materiale di studio, fino al cassetto dove si tengono i lubrificanti, gli oggetti hanno testimoniato innumerevoli lotte, lunghe violenze e fugaci allegrie, tante cose di cui non si parla, di cui non si scrive, quell’ultimo frammento di riserbo. Per i posteri, dobbiamo fidarci solo dei nostri oggetti. Sono muti.


RODRIGO MAGALHÃES nasce nel 1975. È libraio e vive a Lisbona.

GIULIA VITINI
Perugia, 1993. Vive a Lisbona dal 2019. Traduce, a volte scrive ma più che altro legge.

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